Yasser, i conti non tornano

Bush? Troppo moderato. L’Europa? Troppo filo araba. Arafat? Troppo terrorista. Michael Winters, editorialista del mitico The New Republic (il più liberal dei magazine Usa), dice “qualcosa di sinistra” (americana) in esclusiva per Tempi

L’anno passato il Presidente George W. Bush sembrava Churchill. Oggi si comporta come Neville Chamberlain. Alla prima prova di fermezza nella guerra dell’Occidente contro il terrorismo dopo la caduta del regime talebano, Bush ha ceduto alla pressione europea e a quella del Dipartimento di Stato chiedendo la ripresa dei negoziati di pace tra Israele e il leader dell’Autorità Palestinese, Yasser Arafat. Colin Powell è stato inviato in Medio Oriente per avviare le trattative, gli Stati Uniti hanno chiesto il ritiro israeliano dalla West Bank, mentre il Principe saudita riceveva il benvenuto nel ranch presidenziale in Texas. La guerra al terrorismo è giunta ad una frenata brusca, vergognosa ed imbarazzante.

Gli uomini-bomba non sono cartoon

Cerchiamo di essere chiari su Arafat. Arafat è il terrorista che può vantare la maggiore anzianità di servizio. È l’uomo che non ha fatto esattamente nulla per alleviare la povertà e la sofferenza del suo popolo, arrivando a rifiutare quegli aiuti americani e israeliani che avrebbero potuto offrire se non altro un certo sollievo terreno e materiale, oltre a dissuadere la gente palestinese dal cercare soluzioni diverse alla propria miseria, soluzioni nell’oltre mondano, in altre parole il suicidio. Arafat è l’uomo che ha firmato gli accordi di Oslo ma che, nello stesso tempo, ha continuato a mascherarsi dietro le intese in materia di sicurezza di quegli accordi per agevolare gli attacchi terroristici contro Israele. L’uomo che ha insistito perché i cartoni animati trasmessi nei programmi per bambini della televisione palestinese celebrassero il suicidio di quegli uomini bomba che ammazzano civili israeliani inermi, avvelenando la nuova generazione con l’odio. Arafat è l’uomo che non può, o non vuole, fermare i terroristi che gli stanno al fianco. È con quest’uomo che gli israeliani dovrebbero negoziare la pace? Chi potrebbe non essere solidale con la drammatica condizione del popolo palestinese? La sua povertà, la sua miseria, tutte queste cose insieme gridano giustizia al Cielo. E tuttavia molti sono i popoli del mondo che subiscono un destino ingiusto e infelice. Gli slums di Giacarta, le favelas di Rio de Janeiro, le campagne di Haiti, sono popolate di persone che vivono in condizioni disperate, oltre ogni possibile immaginazione. Ciò malgrado, solo in Medio Oriente questo senso d’offesa si traduce in attentati suicidi. Perché? Perché gli uomini bomba sono il risultato di una ben calcolata scelta politica. Arafat, e insieme con lui i suoi finanziatori sauditi, hanno deciso che piuttosto di provare ad alleviare le sofferenze del popolo palestinese, è meglio mantenerlo in uno stato di miseria e far crescere il rancore verso Israele. In effetti, un palestinese ben nutrito potrebbe cominciare a farsi qualche domanda sulla corruzione endemica dell’Autorità Palestinese. Un saudita al quale venisse a mancare il nemico israeliano contro cui protestare potrebbe farsi qualche domanda sulla politica della Casa Reale. Oggi Arafat non è più sotto assedio a Ramallah. Secondo il New York Times, il suo rilascio si deve a «un compromesso dell’amministrazione Bush». Credo che il Times intendesse un compromesso diplomatico, ma si è trattato di un compromesso morale. Israele ha detto ad Arafat: «sappiamo, e anche tu lo sai bene, che entro le tue mura ci sono 5 uomini che hanno complottato per uccidere un ministro del nostro Governo. Consegnali alla giustizia». Se l’amministrazione Bush ha il diritto di spedire le truppe americane in Afghanistan, allora anche a Sharon va riconosciuto il diritto di mandare l’esercito israeliano a Ramallah per catturare i terroristi. Ora Bush come potrà guardare in faccia Sharon quando i due si rincontreranno?

Serve un nuovo leader

Scrivendo per il Wall Street Journal, lo scrittore palestinese Taker E. Masoud ha affrontato un altro mito del Medio Oriente, quello della speranza impossibile. Masoud ha osservato che «la scelta davanti alla quale si trovano oggi i palestinesi non è quella tra libertà e morte». Quello degli uomini bomba sarebbe insomma l’atto estremo, l’arma di chi non ha più altre armi, né un’alternativa alla guerra. Tuttavia, negli ultimi 10 anni, i negoziati di pace con Israele non sono mai andati così avanti. C’è stato disaccordo su alcuni punti, qualche progresso e qualche passo indietro su altri. Ma non si è mai arrivati ad un punto di disperazione. I palestinesi sono tornati alla violenza del terrorismo perché questa è stata la scelta di Arafat. Esistono in realtà molte strade alternative per il popolo palestinese, ma tutte richiederebbero una leadership politica di cui non si trova traccia nel curriculum vitae del leader dell’Anp. E nessuno dovrebbe sorprendersi dopo le sue ultime manifestazioni di collera. Hanno il tono della familiarità perché sono effettivamente familiari – Arafat è stato espulso dalla Giordania, e poi dal Libano, proprio a causa delle sue esternazioni colleriche. Dieci anni dopo Oslo, bisogna riconoscere che chiunque desideri con sincerità un miglioramento delle condizioni di vita del popolo palestinese, chiunque desideri effettivamente che i giovani palestinesi vivano vite normali, col diritto alla libertà e all’educazione, senza subire la seduzione del terrorismo suicida, chiunque desideri una pace reale in Medio Oriente, oggi, nel maggio 2002, deve esigere che Arafat venga rimosso dalla scena e che in Palestina sorga una nuova generazione di leader politici, uomini e donne che non abbiamo costruito le proprie carriere sulla violenza e sull’odio. Solo allora le condizioni del popolo palestinese potranno migliorare.

Perché l’Europa è anti-israeliana

Perché gli Stati Uniti dovrebbero appoggiare Israele? La ragione strategica appare fin ovvia – Israele è l’alleato più fedele che gli Usa abbiano mai avuto. Ma gli interessi strategici possono cambiare. La ragione morale, secondo me, è più forte. Non sono un fan di Ariel Sharon: il fatto è che Sharon può venire destituito dal suo incarico attraverso libere votazioni del popolo israeliano e ciò non può essere detto di nessun leader arabo. Una democrazia come la nostra merita sempre aiuto. Oltretutto, considerando la storia dell’Occidente, occorrerebbe prudenza quando si criticano ebrei che si stanno difendendo. Scrivendo per il New Republic, Martin Peretz commenta: «amici europei, animati da buone intenzioni (ma anche alcuni membri più giovani della mia stessa famiglia), mi supplicano di comprendere che è l’immagine di questi ebrei duri e determinati che imbracciano i fucili ad incitare l’antisemitismo. Sì, è vero: gli assassinii degli ebrei non possono più rimanere impuniti e senza alcuna conseguenza». Questo sa di estasi morale, oltre ad essere un’ironia storica. L’antisemitismo esisteva ben prima che facessero la loro comparsa i soldati ebrei, gli israeliani lasciati da soli e armati di fucili. È stata l’impotenza degli ebrei ad incitare l’odio dei fascisti nella metà del secolo scorso; oggi quell’odio viene aizzato dalla potenza d’Israele. Se la storia dell’antisemitismo insegna qualcosa, è che l’antisemitismo ha davvero poco a che fare con gli ebrei.

Perché l’Europa si rifiuta di appoggiare con più determinazione Israele? Non ne sono sicuro. Certo, sarebbe stupido sminuire il peso di un antisemitismo residuale delle classi dirigenti tradizionali. Anche negli Stati Uniti, in alcuni strati della società, a livello molto alto, i commenti contro gli ebrei non sono fuori del comune più dei commenti sul tempo (detto questo, la recente vignetta de La Stampa che ripeteva la vecchia fola dell’antisemitismo classico, «assassini di Cristo», tocca un grado di perversione editoriale di cui è difficile scandagliare le profondità). Inoltre, le nazioni europee fanno molto affidamento sul petrolio saudita. E suppongo che il desiderio di assumere una posizione netta, qualsiasi posizione, in contrasto con l’“egemonia globale”, renda conto di alcune delle ragioni che spiegano le relazioni d’amorosi sensi europee con Arafat. Ad ogni modo, qualunque sia la causa della cecità europea sulla realtà politica e morale del Medio Oriente, essa è diventata schiacciante. Si scopre così che l’11 settembre non ha cambiato tutto. Forse solo se il centro di Parigi, come lower Manhattan, si svegliasse una mattina trasformata in un ossario, il Quai d’Orsay vedrebbe le cose secondo una prospettiva diversa.

Perché Bush incontra Abdullah?

Il Principe Abdullah ospite nel ranch di Bush è stato uno spettacolo disgustoso quanto rivelatore. Sono proprio i sauditi a pagare in contanti le famiglie dei terroristi suicidi che fanno scempio di civili israeliani. Come può essere coerente con la guerra al terrorismo un comportamento simile? Non dovremmo piuttosto parlare di istigazione? In un’intervista televisiva con George Stephanopoulos, sulla Abc, il ministro degli Esteri saudita ha ammesso il pagamento dei risarcimenti alle famiglie palestinesi, ma ha negato che si tratti di una retribuzione per i terroristi. Quando gli è stato chiesto di parlare di quel poema composto dall’ambasciatore saudita in Gran Bretagna che descrive gli Stati Uniti come Satana mentre celebra il sacrificio degli ultimi terroristi suicidi, il ministro degli Esteri ha ripreso a balbettare. E uno quasi prova compassione per quest’uomo: non dev’essere facile dover dire tutte quelle bugie in una volta sola.

Nondimeno, il Presidente ha chiamato i sauditi «amici». Questo non può essere vero. D’accordo che è difficile cambiare la politica americana in un batter di ciglio. D’accordo anche che ci sono momenti in cui gli interessi dell’Occidente e quelli della monarchia saudita possono, superficialmente, coincidere. Ma una monarchia retriva che governa il suo regno calpestando quanto c’è di più caro nelle democrazie occidentali, no, questa monarchia non potrà mai essere nostra amica. Dell’esportazione dell’odio e del terrore, i sauditi hanno fatto da lungo tempo una politica di Stato. La versione dell’islam radicale che viene utilizzata dai sauditi per giustificare il proprio ruolo di custodi dei Luoghi Santi è quella stessa versione dell’islam che spinge i giovani a farsi esplodere nelle pizzerie israeliane e sugli aerei di linea americani. È quella stessa versione dell’islam che considera la violenza il primo e il migliore degli strumenti politici, essendo tutti gli altri strumenti proibiti. Una versione dell’islam che impone alle donne di coprire il proprio volto, e con esso i propri sogni. Una versione dell’islam con cui, piaccia o non piaccia, le società liberali dell’Occidente si trovano in una rotta di aperta collisione alla quale non possono sottrarsi. Ciò che noi occidentali dobbiamo ancora capire, ciò che gli israeliani hanno già compreso, è che l’islam radicale non vuole che noi cambiamo le nostre politiche: vuole vederci morti.

Quando penso a quest’Intifada e alle vittime innocenti israeliane che sono state ammazzate, quando ripenso all’11 settembre e a tutte le vittime innocenti americane e non americane che sono state assassinate, vorrei poter recitare queste parole come se fossero mie: «Questo è soltanto l’inizio del conto da pagare. Questo è solo il primo sorso, il primo assaggio di una coppa amara che ci verrà offerta anno dopo anno finché, con un supremo slancio di forza morale e di vigore marziale, noi ci rimetteremo nuovamente in piedi e prenderemo posizione per la libertà, come ai tempi antichi». Ma queste parole non sono mie. Sono state pronunciate da Churchill alla Camera dei Comuni nel 1938, quando Chamberlain tornò da Monaco avendo guadagnato «pace per i nostri giorni». Ora spetta a Bush decidere se preferisce compiacere i finanziatori e gli autori materiali del terrorismo, o se vuole invece proseguire la guerra contro di esso. Settimana scorsa, il Presidente ha fallito il primo esame.

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