Vivere, non è mica facile

Lontano dagli stereotipi del Genoa Social Forum. Oltre la noiosa sociologia delle tutine bianche. Dalle processioni ipermediatiche del (per niente) “popolo di Seattle”, alla solipsistica e vagabonda quotidianità della maggioranza dei giovani . Che non cercano momenti di gloria, ma qualcosa che dia gloria alla normalità della vita. Galleria di ritratti minimalisti (ma reali) di ragazzi del villaggio globale

Damian, 19 anni, Praga, Repubblica Ceca. È vestito sempre un po’ meno che bene. Praga è un po’ meno che occidentalizzata e lui frequenta l’università portandosi sempre indosso un paio di pantaloni eleganti (ma di sottomarca) e un camicia bianca (di sottomarca anch’essa). Ha qualche amico che frequenta quando vuole; quando lo studio non è troppo, quando l’umore è quello giusto; di tutto un po’, ma mai troppo. Non racconta a nessuno di sé, non confida a nessuno la sua situazione famigliare. Un’unica eccezione: la birra. Di quella almeno cinque mezze pinte a sera. Ogni pallone ha la sua valvola di sfogo.

Irgina, 20 anni, Brno, Repubblica Ceca. La solare Irgina porta il suo amico Simone, italiano di Milano, alle feste del suo paese. Canti e danze popolari e «tanta, tanta birra» racconta Simone. Simone non conosce la lingua ceca e il suo inglese è zoppicante. Irgina (che ha imparato l’italiano a scuola e grazie alla televisione) fa da interprete presentando a Simone tutti i suoi compaesani. «E ogni nuovo amico si sente in dovere di offrirmi una birra e un bicchiere di China Martini. Al quattordicesimo incontro ho cominciato a parlare in inglese. Mi chiedono se fino a quel momento avevo finto di non sapere la lingua. “No – rispondo – dura finché son sbronzo”».

Alberto, 23 anni, Milano, Italia. Di tanto in tanto va con altri quattro amici a giocare a calcetto con i ragazzi del carcere di Opera. Li aspettano con ansia perché la partita permette loro qualche minuto in più di libertà. Alberto racconta che «in campo litigano molto meno di noi. Al più si sfottono». Uno dei carcerati, M. S., 30 anni, dentro per associazione a delinquere, ragazzo silenzioso e timido, è il più bravo e rimprovera spesso i suoi “cumpà” con un «ma nun se pò pedde cussì». Una volta mancavano ancora cinque minuti ma F. G., 28 anni, dentro per omicidio, era stufo di correre; ha preso in mano la palla e «per oggi basta così». Gli altri han protestato, ma lui ha ripetuto «ho detto che basta così». Son rientrati tutti in silenzio. «È il capo», spiega Alberto.

Agnes Ocitte, 19 anni, Aboke, Uganda. Agnes studiava al St. Mary College quando la notte fra il 9 e il 10 ottobre 1996 fu rapita, assieme ad altre 139 ragazzi, dai ribelli del Lord’s Resistance Army (dal 1993 ad oggi sono circa 10mila i bambini che sono stati rapiti). Grazie all’intervento di Suor Rachele Fassera, missionaria comboniana e vicepreside del College, 109 di loro furono rimessi in libertà. Questa fortuna non toccò ad Agnes che rimase con i suoi rapitori per un paio d’anni. I suoi compagni vennero addestrati e trasformati in soldati. Le sue compagne, come lei, si trasformarono in concubine o in infermiere. Molti hanno subito sevizie e maltrattamenti, sono stati costretti a uccidersi fra loro o ad uccidere adulti. Solo dopo molte peripezie Agnes riuscì a scappare (come lei altre 9 ragazze sono fuggite. Delle altre 21 non si ha traccia). Ora fa parte della Concerned Parents Association che si occupa di raccogliere le famiglie colpite dalla scomparsa dei figli.

Edino, 26 anni, Salvador de Bahia, Brasile. Edino è un favelados con la passione per l’arte. Non era mai andato a scuola eppure era attirato dalle opere della chiesa del suo quartiere. Il parroco, che spesso lo scovava in qualche angolo della chiesa a testa in sù a rimirare i soffitti, l’ha avvicinato e conosciuto. Edino ha avuto così la possibilità di andare a scuola. Ora è laureato e lavora nei centri di recupero di giovani favelados.

Abril, 26 anni, Caracas, Venezuela. Abril studia all’Universitá centrale di Caracas Comunicazioni sociali, ha un figlio ed è divorziata. Vive con la madre, la zia, due fratelli e due sorellastre, piú due cugini a loro volta fratellastri fra di loro. Tuttti nella stessa stanza, tutti stretti stretti.

Gente di Dublino

Riccardo, 26 anni
. Riccardo lavora col padre nel settore tessile. È in Irlanda per imparare l’inglese, anche se non gli dispiace certo bazzicare con frequenza i pub del centro. Tendenzialmente quando va in un pub, non gli dispiace neanche provarci con le ragazze, «tanto se non ci riesci, cosa ci perdi?». Ogni tanto fa lo sborone: «nella mia vita, ci avrò provato con mille ragazze, certo, ti va bene per il dieci per cento, ma sono già cento su mille…». Soprattutto quando si trova in compagnia di altri uomini ama vantarsi delle proprie imprese. Di tanto intanto interrompe la narrazione delle sue gesta chiedendo: «secondo voi quante possibilità ha la Roma di riportare a casa lo scudo?». Rita, 23 anni. La mattina al bar della scuola, il pomeriggio al supermercato. A differenza di molti suoi coetanei italiani non vive in famiglia ma in appartamento. Un piccolo locale dove si può sempre andare per fumarsi una canna o per mangiarsi un piatto di pasta, (che Angela non ti nega mai. Nemmeno se bussi alle 4 di notte). Lorenzo, 25 anni. Lavora ogni mattina in una fabbrica di patatine fritte e assicura di guadagnare molto bene. Per ora lavora, dice, poi penserà a imparare l’inglese. Sentirlo parlare in una lingua diversa dal toscano è impossibile. Nel tempo libero va a caccia di ragazze ma come lui stesso racconta «quando è il momento di segnare prendo sempre la traversa». In Italia Lorenzo non accetterebbe mai di fare l’operaio ma all’estero tutto sembra «più interessante, io mi sento più libero e meno responsabile». Gabriele, 27 anni, seminarista cattolico. È in Irlanda per studiare l’inglese che un giorno gli servirà «quando andrò in missione». Invita spesso i suoi compagni a messa; qualcuno lo segue, qualcuno lo bidona. Lui continua a insistere. Mirek, ceco, 30 anni. Ha lasciato il lavoro per venire in Irlanda a imparare l’inglese. La sua precedente professione non lo soddisfava: «non ero felice, non mi sentivo realizzato. Molte persone – pensa Mirek – fanno per tutta la vita un lavoro, o altro, senza mai essersi chieste, almeno una volta, almeno prima, se è quello che vogliono fare, se è cosi che vogliono passare tutta la loro vita».

Ray 20 anni, New York, quartiere di Brownville a Brooklyn, Usa. Ray non sa tornare a casa. Abita nel quartiere di Brownville, zona nera e fra le più malfamate della Grande Mela. Quando la sera esce con gli amici si fa accompagnare non a casa ma alla stazione del metrò. Non sa nemmeno bene che cosa ci sia intorno mentre mette un piede davanti all’altro procedendo sull’unico tragitto che conosca. Non alza mai troppo gli occhi perché potrebbe incrociare lo sguardo di qualche ragazzo del quartiere che non esiterebbe a farlo fuori.

Mark, 18 anni, New York, Usa. Appena raggiunta la maggiore età, come molti altri suoi coetanei benestanti statunitensi, Mark ha chiesto ai genitori di regalargli un appartamento. Detto fatto gli è stato concesso un basament flat (un seminterrato abitabile con le finestre al livello della strada). Il basament è situato proprio sotto la stanza da letto dei genitori, basta scendere un piano e si è subito lì. Mark non ha perso tempo e ogni sera porta a casa una ragazza. I genitori sono ora pentiti della scelta; non tanto per le abitudini sessualmente voraci del figlio quanto per il gran fracasso che dal seminterrato giunge fino nella loro camera da letto. Ma per Mark nessun problema: «di che si lamentano? Sono loro ad avermelo regalato».

Charles, 20 anni, New York, Usa. Vede gli amici nel tempo libero. Il tempo libero è il tempo che è sottratto alle ore davanti al televisore. Il suo universo inizia e finisce con la tastiera del telecomando.

Benedetto, 23 anni, Chicago, Usa. Benedetto (Uelchi per gli amici), a Chicago per studiare, racconta che «trovare un amico e non solo un letto e un tetto è impossibile». Perché? «Per conoscere qualcuno devi proporgli tanta birra, tendenzialmente di pessima qualità (Miller Lite), che la Moretti al confronto è la birra dei monaci belgi. Ma c’è una ragione del perché bevono questa schifezza, me la sono fatta dire: non essendo forte ne puoi bere tanta senza ubriacarti, ma raggiungendo solo un dimentichevole stato di ebbrezza». È andato alla festa di compleanno di una studentessa della sua università. Imperativo categorico del party: «to have fun», cioè divertirsi. Ma «ci si è limitati a parlare del tempo come degli ottantenni. L’unica speranza è che, mentre sorseggi la tua birra, quello di fianco a te, dica una cazzata che faccia ridere». Giura che se trova quello che ha inventato l’espressione «to have fun», lo strozza.

Wolfram, 27 anni, Stoccarda, Germania. Wolfram è di Hannover ma una volta al’anno si reca all’Oekümenische Zentrum nel quartiere di Veininghen a Stoccarda. Prima di entrare si appende sulla giacca un cartellino con il suo nome in codice: «Blurk». Nella sala lo aspettano altri seicento ragazzi, ognuno con il suo cartellino, ognuno proveniente da qualche città della Germania, ognuno sconosciuto agli altri. Sono i seicento partecipanti ad un gioco di ruolo che impazza su Internet fra i giovani teutonici. Il momento di ritrovo consente ai partecipanti di vedersi in faccia. Ma soprattutto di scambiarsi informazioni sulle avventure vissute nel virtuale mondo parallelo creato dalla fantasia dei partecipanti. Della vita reale non importa a nessuno un fico secco. «Che lavoro fai? Come ti chiami veramente? Di dove sei?» sono domande che nessuno si sogna di porre. Invece, le più frequenti sono: «Quali armi hai? Che avventure hai vissuto? A che livello sei del gioco?». L’ammirazione è massima per chi risponde: «sono un dio. Decido che cosa devi fare tu nel gioco».

Togi, 25 anni, Giakarta, Indonesia. Togi si è da poco tempo laureato all’Atma Jaia, università al centro della città spesso sede di scontri fra i dimostranti e la polizia. Ha scoperto su Internet che Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni politiche in Italia e subito si è chiesto: «ma è vero che ha comprato Beckam?»

Paul, 26 anni, Giakarta, Indonesia. Racconta: «Sono solo un ragazzo indonesiano che sta provando a vivere e restare vivo in un paese che adesso è così pieno di problemi. Io ero nato “con la camicia”, perché mio padre era ambasciatore in Italia». A Roma ha vissuto tre anni, imparando l’italiano, il francese e il tedesco. Quando il padre morì e la famiglia fece ritorno in Indonesia «decisi che avrei lavorato; i soldi erano davvero pochi». La sua settimana: dalle 8.00 fino alle 16.30 in un ufficio legale. Dalle 17.00 alle 21.00 insegna inglese in una scuola per manager. Così dal lunedì al sabato. La domenica vende souvenirs con un amico via Internet. Tutte le notti fa traduzioni a pagamento per l’ufficio legale. Ora ha finalmente trovato lavoro presso una ditta internazionale, Ef, e così spera di «poter trascorre più tempo con ragazzi della mia età».

Mimoza Gojani, 17 anni, Pristina, Kosovo. Vive in un appartamento con la sua famiglia di sei persone (genitori, due sorelle e un fratello). Ricorda che «quando ero in seconda elementare la scuola fu divisa in due tramite un muro, una parte molto piccola fu destina a noi bambini albanesi, una parte più grande fu destinata ai bambini serbi anche se erano molti meno. Essendo la parte albanese insufficiente per ospitarci tutti, dovevamo improvvisare delle classi nel corridoio o nell’atrio. Mi ritenevo fortunata perché vedevo molti altri bambini che non avendo la possibilità di frequentare la scuola, dovevano andare nelle case private. Più tardi accadde anche a me, ma soltanto per metà anno, poi fui riammessa alla scuola pubblica». Durante la guerra «ogni sera dalle ore 20:00 la Nato cominciava i bombardamenti, da quel momento non c’era più elettricità e noi facevamo luce con le candele. I serbi ci obbligavano a tenere bassa anche la luce delle candele, così era difficile persino leggere. La situazione è peggiorata sempre di più. Dopo tre giorni la linea telefonica è caduta. Dormivamo con i vestiti perché ci aspettavamo che, da un momento all’altro, la polizia buttasse fuori anche noi». Oggi Mimoza fa parte di un’associazione di volontariato che si occupa di giovani, si chiama – in inglese anche se è albanese – Post Pessimist.

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