Tirannia delle buone intenzioni

La nuova ortodossia progressista, che governa oltre i governi, sta trasformando gli Stati Uniti in una “casa comune” della correttezza politica. Mentre l’Italia importa sempre e solo gli errori, sulle due sponde dell’Atlantico impazzano i giudici-legislatori

Segno dei Tempi. È un bel po’ che la nostra lingua batte là dove il dente malato della civiltà occidentale duole. Gli orrori dell’”amore” sono l’ultima maledizione che ci tocca patire in coda a quella che, se fossimo (ma non siamo) nietzcheani, definiremmo «menzogna millenaria». Come rilevano Alain Finkelkraut e Giuliano Ferrara – o come l’eclatante “caso Pim Fortuyn” ci ha brutalmente sbattuto in faccia -, l’impero alla fine della decadenza ricicla il proprio giacobinismo sotto le mentite spoglie della “bella politica”, del “buonismo”, del dipietrismo e dell’Emergency-pensiero. È la “correttezza politica” dalla culla alla bara che ci scava, inavvertitamente giorno dopo giorno, la fossa; e il suo strumento di lavoro (ogni Maximilien Robespierre, anche se in vesti di agnello, ha sempre il suo Georges Danton) sono i tribunali e le leggi.

A suo tempo Eric Voegelin la chiamava era del «divieto di fare domande»; oggi è l’epoca del divieto punto e basta. Per il nostro bene, si capisce; per il “bbene” dell’umanità e per il progresso. E così, come insegnava Karl von Clausewitz, l’abile opera retorica della propaganda funzionale al potere delle “dolci catene” riesce a battere d’anticipo anche la sola ipotesi di una reazione. Chi è tanto temerario da opporsi alle magnifiche sorti e progressive che il neolegalismo dei buoni sentimenti può assicurare al mondo intero?

Fortunatamente qualcuno c’è.

Contro la correttezza politica

Squilli di rivolta riecheggiano, infatti, da quella che per molti versi è la patria (tutta recente) del buonismo, la terra di elezione dei “bei politici” (e dei “buoni giudici”) che ha partorito modelli cristallini di pii sentimenti come la dinastia dei Kennedy, i Martin Luther King, gli Abraham Lincoln. Sì, proprio gli Stati Uniti. O quelli che crediamo esserli. Gli è, infatti, che la quintessenza di ciò che riteniamo limpidamente “amerikano” è in realtà un bufala. Al meglio, una distorsione. Onore e gloria ai pompieri di Manhattan, alle vittime di Osama bin Laden e alla gloriosa bandiera cucita (in versione originale) da Betsy Ross soprattutto perché rappresentano “il popolo” americano, il genuino “spirito del 1776”, la sacca di resistenza più ingenua e pura contro i tentacoli dell’“amore che uccide”. Leggiamoci però The Tyranny of Good Intentions: How Prosecutors and Bureaucrats are Trampling the Constitution in the Name of Justice (Forum, Roseville [California] 2000), ovvero “La tirannia delle buone intenzioni: come i pubblici ministeri e i burocrati stanno calpestando la Costituzione in nome della giustizia”. Ha già due anni, ma tiene banco dal giorno della pubblicazione ed è continuamente rieditato. Perché provoca. Guardiamoci dentro. Capiremo perché siamo proprio tutti americani.

Fatti, non falsi miti

Dalle sue pagine traspaiono i volti di milioni di americani oramai costretti a difendersi dalla “giustizia” per conservare quel che resta dei loro antichi e semplici diritti di uomini. Ne sono autori Paul Craig Roberts e Lawrence M. Stratton, dell’Institute for Political Economy della californiana Stanford University. Il secondo è avvocato in Virginia e nella capitale federale, mentre il primo – ricercatore alla Hoover Institution on War, Peace and Revolution a cui hanno legato il proprio nome Eric Voegelin, Angelo Codevilla e Robert Conquest – è uno dei campioni della scuola economica detta “Supply-Side”, un padre riconosciuto del taglio alle tasse operato da Ronald Reagan nel 1981 (il maggiore della storia statunitense) e dunque – udite, udite – un nome non completamente sconosciuto nemmeno nella nostra Italia sempre attardata su miti scaduti come la mozzarella rancida e strutturalmente incapace di guardarsi attorno.

Il progressismo poliziesco

Gli Stati Uniti sono diventati uno “Stato di polizia”. Chi lo afferma non è un libertarian estremista o un patriot delle milizie dell’America rurale, ma Henry J. Hyde, presidente della Commissione Giustizia della Camera statunitense, uno degli uomini di più specchiata moralità (non moralismo) e sagacia politica che il Paese abbia conosciuto negli ultimi anni. E Roberts e Stratton glossano: «Com’è possibile che, su casi seri tanto quanto lo sono gli omicidi, la polizia e i pubblici ministeri abbiano torto più della metà delle volte?». Ma così è. I due opinionisti non sono certo degli epigoni statunitensi di chi da noi un dì voleva, spranga e P38 in mano, «disarmare la polizia», ma affermano che «le buone intenzioni hanno trasformato il diritto da scudo per gl’innocenti ad arma» di “sbirri” esecutori di un mandato ideologico. Quale? Quello di una ben radicata èlite progressista di potere che regge la cosa pubblica in modo assolutamente autoreferenziale, fondando la sovranità dello Stato e la legittimità del suo agire sulla forza che elimina gli antagonisti. Ovvero il popolo. Cioè i cittadini tartassati e le loro libere associazioni e intraprese nate come cuscinetti contro lo Stato-chioccia e contro la “società terapeutica” che pretende di curare i mali della collettività. Possono dunque gongolare le nostrane Destra e Sinistra antiamericane, finalmente paghe di un testimonial d’eccezione dei propri pregiudizi? No di certo. Lo “Stato poliziesco” denunciato da Roberts e da Stratton è, infatti, il frutto maturo dello spirito liberal più agguerrito che, a suon di “buone intenzioni”, snatura lo spirito americano più autentico.

I nuovi tiranni

Secondo Roberts e Stratton, la tradizione del Common Law britannico-statunitense che ha prodotto la Costituzione federale a garanzia dei cittadini – quel “diritto comune” di natura consuetudinaria che protegge la gente normale nei casi concreti e ispirandosi a un criterio di equitas empirico-valoriale – è morta sotto i colpi del legalismo astratto e aprioristico, del positivismo giuridico e di un’ingegneria sociale che ha reso la legge fondamentale del Paese mero chiffon de papier. E che quindi apre la strada, ancorché in veste democratica, al dispotismo. Per esempio, «quattro giorni prima dell’inaugurazione formale della presidenza di Ronald Reagan nel gennaio 1981, l’amministrazione Carter mise in vigore due volumi di nuove norme giuridiche atte a promuovere politiche contro cui la popolazione aveva appena votato».

La guerra dichiarata alla droga, alla pedofilia, all’inquinamento, alla povertà, alla fame nel mondo, al razzismo, alla sigaretta o alla sola lontana idea di chiamare “checca” un omosessuale allunga la serie dei delitti vecchi e nuovi, reali o inesistenti, funzionale all’intronizzazione di nuovi ceti politici e giudiziari animati dalla “santa” idea di purgare l’umanità dal vizio, quindi di imporre la virtù per decreto e con lo sfollagente. «Oggi i burocrati – scrivono i due autori statunitensi – definiscono facilmente un crimine a seconda di come interpretano la norma legislativa che essi stessi scrivono» e così questa «spontanea creazione» di sempre nuovi reati contribuisce «a rimuovere dalla pubblica accusa ogni di tipo di freno». È dunque «la codificazione della tirannia» mediatico-burocratico-giudiziario-intellettuale; e questa «tirannia si diffonde come il cancro», qualunque sia la maggioranza politica che governa. Il popolo americano, intanto, la vera America langue. È poi così diverso nella nostra Italia?

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