Timor è un’isola, come le Maldive. Timor è dall’altra parte del mondo, come Bali. Timor che aspetta, parecchie migliaia morti dopo, il ritorno dell’Onu dalle vacanze

editoriale

Dili è una città morta. Così, dopo ventiquattro anni di occupazione indonesiana, 200mila vittime (a cui vanno ad aggiungersi le migliaia di trucidati solo nell’ultima settimana) su 800mila abitanti, si è compiuto il destino di un popolo che, non dimentichiamo, secondo il diritto internazionale, dal 30 agosto, con un referendum vinto a maggioranza schiacciante dagli indipendentisti, riconosciuto dalle Nazioni Unite e (formalmente) dalla stessa Indonesia, avrebbe dovuto riacquistare il diritto alla propria libera autoderminazione. Dopo un massacro a cui hanno assistito senza muovere un dito tutte le grandi potenze del mondo,Timor Est aspetta ora l’invio di ottomila caschi blu, come forze di interposizione a una pulizia etnica ormai quasi ultimata. Dopo un ennesimo bagno di sangue che ha cancellato il primo spiraglio di democrazia apertosi nel corso di un quarto di secolo di feroce oppressione militare, una colonia amministrata (con liberalità) dal Portogallo resta schiacciata dalla politica del terrore instaurata da Giakarta fin dal 1974. Dopo venticinque anni di violenta persecuzione nei confronti della locale popolazione cattolica, in spregio a ogni risoluzione Onu il regime indonesiano impedisce che Timor Est possa avviarsi verso un’epoca di democratica e pacifica convivenza.

Intoccabile indonesia Come può accadere tutto ciò nell’epoca della cosiddetta “ingerenza umanitaria”? Può accadere perché l’Indonesia è uno dei più importanti partner commerciali dell’Occidente, uno di quei paesi per i quali, nonostante quanto è accaduto e accade a Timor Est, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale dichiarano che non intendono neppure prendere in considerazione l’ipotesi di una sospensione del piano di aiuti economici, e che dunque stragi e mancato rispetto di diritti umani e politici non interferiscono con i prestabiliti progetti di sostegno a Giakarta. Che poi i miliardi di dollari di aiuti internazionali siano serviti e servano a finanziare un esercito di invasione o per acquistare i cacciabombardieri inglesi con cui l’aviazione indonesiana ha sorvolato Timor Est nei giorni scorsi, questo imbarazza persino il Foreign Office, ma sembra non siano motivi sufficienti per considerare anche solo lontanamente la situazione di Timor analoga a quella in Kosovo. Ovviamente tutto ciò significa che coloro che hanno pianificato e orchestrato i pogrom contro i cristiani di Timor hanno già raggiunto il loro obbiettivo.

Opinionisti sbandati D’accordo,Timor Est è dall’altra parte del pianeta. D’accordo, non si possono mettere a repentaglio le relazioni commerciali con tutti i paesi del mondo – e la lista è lunga – che non rispettano i diritti umani o che compiono stragi di oppositori e minoranze etniche, politiche, religiose. D’accordo, l’Occidente – e non dimentichiamo quell’occidente in cui libertà, diritti e razionalità umani hanno salde radici nella tradizione ebraico-cristiana – non può intervenire ovunque (anche se, come è noto, solo in Occidente, solo in Europa, come ci ha ricordato Sofri su queste pagine, si è passati dal niente al tutto aereo in nome dell’“ingerenza umanitaria”). Tutto comprensibile, anche se, converremo, tremendamente ingiusto. Ciò che però attizza il desiderio di mettere mano alla fondina, è la superficiale slealtà dei quei doppiopesisti che cercano di ribaltare la frittata (e tra questi ci spiace assai che si sia intruppato anche lo stimato Vittorio Feltri, il quale, riecheggiando altri illustri opinionisti, ha proposto “un quiz ai dottori del Vaticano e ai loro fans: come mai la Chiesa capiva le ragioni degli assassini ( cristiani ) serbi che uccidevano i kosovari musulmani mentre qui capisce le ragioni degli assassinati ( cattolici ) dai musulmani? Mah”).

Cosa chiede il Papa Come ci sguazzano gli editorialisti più realisti del re raccontando “la fine del pacifismo” e mettendo Vaticano e comunisti tutti nello stesso pentolone di dilettanti retrò. È come se volessero dire: “o inguaribili romantici, ma non avete ancora capito come funziona il mondo?”. Sono gli stessi, ovviamente, che poi si impancano in grandi inchieste sulla corruzione interplanetaria, che poi vorrebbero stabilire tribunali internazionali anche per i padroni dei cani abbandonati, quelli che l’importante non è come fermare prima gli assassini, ma in quale assise togata li si dovrà giudicare, poi. A noi invece sembra che il Papa sappia molto bene come funziona il mondo. L’unico particolare è che egli non possiede né armi, né eserciti, né tribunali dell’Aja da mettere sul piatto della bilancia dell’improbabile giustizia di questo mondo. E dunque: tutti noi sappiamo molto bene che non è vero che la Chiesa cattolica è stata doppiopesista, sappiamo molto bene invece che Giovanni Paolo II ha chiesto per primo, in Kosovo come a Timor Est, che le grandi potenze si muovessero subito per fermare i genocidi e che l’Onu inviasse subito forze militari di interposizione. Il Papa ha chiesto allora e chiede oggi le stesse cose, anzi una sola: protezione e soccorso per le popolazioni inermi. Il Papa ha supplicato per Pristina la stessa cosa che oggi supplica per Dili. Il problema è che per Pristina invece di inviare una forza di interposizione le grandi potenze hanno proclamato lo stato di allerta umanitaria mondiale e inviato migliaia di caccia, non a proteggere la popolazione sul terreno, ma a bombardare per due mesi Belgrado. Mentre per Dili le grandi potenze hanno risposto con il sorrisetto di un uomo del Dipartimento di stato americano: “ma come, il Papa non doveva andare in Irak?”. Il Papa non ha chiesto ieri di bombardare Belgrado e non chiede oggi di bombardare Giakarta. Il Papa chiede quello che, messo di fronte a una catastrofe umanitaria, qualsiasi uomo ragionevole dovrebbe chiedere a quella parte di mondo che rappresenta un’infima minoranza della popolazione della terra, ma che detiene il potere, i soldi e le munizioni per costringere quelli che, spesso nelle veci dell’Occidente, hanno in pugno le vite e i destini dei poveri cristi che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione della terra: e cioé fare il possibile, con i loro soldi, potere e munizioni, per salvare vite umane e alleviare le sofferenze dei perseguitati, commisurando gli interventi (anche militari) alla realizzazione anzitutto di questi scopi (ovviamente e realisticamente ammettendo anche quelli di natura economica e geopolitica). Cosa hanno risposto i potenti? Picche. Al punto che con amara ironia lo stesso Washington Post – che non è propriamente un giornale di resistenza umana – ha osservato che “le ampie vedute dell’amministrazione Clinton sulle sue responsabilità globali si sono considerevolmente ristrette”.

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