The Bay, quando il thriller fa acqua da tutte le parti

Debole thriller-horror che ripete stancamente stile e trovate dei vari Paranormal Activity e affini. Barry Levinson (una carriera di alti e bassi: Rain Man ma anche Bandits e Disastro a Hollywood) si accoda alla moda, in via di esaurimento, dell’horror del punto di vista. Telecamere nascoste, riprese pseudoamatoriali, circuiti di sorveglianza ma anche, per stare al passo con la tecnologia, la camera dell’Iphone, FaceTime, webcam, Skype. Una moltiplicazione di punti di vista e di personaggi che raccontano, a modo loro, il disastro ecologico che ha portato nel 2009 un’intera cittadina a morire per le conseguenze del contatto con dei pidocchi d’acqua modificati per le schifezze che le fabbriche buttavano nella baia su cui si affaccia il piccolo paesino turistico.

È un mockumentary: cioè un finto documentario che riporta una finta verità (e anche un falso complotto: lo Stato che ha voluto mettere a tacere lo scandalo dei rifiuti tossici) per mettere di fronte il pubblico al pericolo reale delle conseguenza dell’inquinamento delle acque in questo caso e dell’ecosistema in generale.

Levinson, lavorando su uno script di Michael Wallach, gioca sul già visto: tanti (deboli) punti di vista diversi, riprese pseudoamatoriali che consentono di risparmiare sul budget e sugli effetti; immagini sgranate o “danneggiate”, un po’ di morti che avvengono fuori campo. E una voce guida – di una reporter scampata al massacro e, incredibilmente, venuta in possesso del materiale audio e video fatto sparire dai Poteri forti – a fare da cornice alla narrazione, gridando al complotto e mettendo in guardia contro gli interessi disumani dei soliti noti: industrie e politica.

Mediocre in una poverissima messinscena che non riesce, con il minimo budget che possiede, a centrare quell’obiettivo di realismo che poteva far la differenza per un prodotto di questo tipo, il film non brilla nemmeno per la regia piatta di Levinson, regista discreto e versatile ma che da tanti anni non riesce a realizzare davvero un’opera convincente. C’è qualcosina di buono: l’inserto con il racconto dei due oceanografi non è malaccio dal punto di vista puramente della tensione anche per la presenza di una sequenza inquietante dell’autopsia del pesce ma su tutta l’operazione pesa una sensazione di già visto (e già visto meglio) oltre al fastidio per i continui ammiccamenti a certo complottismo di cui abbiamo francamente piene le tasche.

@petweir

 

 

 

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