Quei tesori tolti alla mafia che lo Stato sembra proprio voler ignorare

Nel fondo che gestisce il denaro contante e i titoli monetizzabili giacciono inutilizzati più di tre miliardi di euro senza che nessuno sappia dire perché

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Negli ultimi decenni il contrasto alle mafie ha di volta in volta individuato delle priorità. All’inizio degli anni Novanta l’esigenza numero 1 era la cattura dei latitanti: forze di polizia e magistratura hanno concentrato l’attenzione verso quest’obiettivo e i risultati non sono mancati, al punto che adesso i boss di calibro non ancora in carcere sono poche unità. Un decennio fa la priorità condivisa era colpire i beni accumulati illecitamente dalle organizzazioni mafiose: governo e parlamento hanno adeguato le norme, e la loro applicazione da parte dei giudici e della polizia giudiziaria ha sottratto alle mafie beni per decine di miliardi di euro. Oggi si fa fatica a individuare la priorità vera, e già questo non depone bene: il contrasto alle mafie ha nel suo insieme un posto inspiegabilmente marginale nel dibattito.

Si parla di criminalità mafiosa, come è logico, quando emergono connessioni con la vita politica e amministrativa, ma – tolta Mafia Capitale e i Casamonica – il tema non è all’ordine del giorno, pur non essendo cessata l’aggressività dei clan, soprattutto nell’economia e nella finanza.

Se però una priorità va individuata, essa riguarda la destinazione dei beni confiscati. Il mafioso non teme il carcere. Lo evita il più possibile, anche a costo di latitanze mortificanti, ma se viene arrestato è qualcosa che ha messo in conto. Quello che gli fa veramente male è il sequestro e la confisca dei suoi beni, perché gli fa perdere forza di intimidazione, credibilità, consenso. Che la sua abitazione, al centro del paese del quale è stato per anni il capo incontrastato, sia trasformata in “caserma per gli sbirri” vuol dire che lo Stato riesce a porre al servizio delle istituzioni, e quindi della comunità, il “lavoro” illecito svolto dal criminale: vuol dire metterlo in ginocchio, non solo simbolicamente.

La frontiera più qualificante nella repressione delle mafie è proprio la piena funzionalità del sistema sequestro-confisca-destinazione. Qui si gioca la partita decisiva. Se si afferma la convinzione, perfino in aree ad alta densità mafiosa, che fare i mafiosi non è utile, se si affronta il nemico sul terreno della convenienza prima che dei richiami etici, se quindi per un capo clan diventa elevato il rischio di non disporre più delle ricchezze accumulate, cade la sua capacità attrattiva. Il campo di gioco in questo momento non è però la capacità dello Stato di togliere ai mafiosi i beni illecitamente percepiti. È piuttosto la capacità di utilizzare quei beni, di rendere concretamente possibile la loro destinazione sociale. Quando una confisca diventa irrevocabile, il mafioso non si rassegna: prova a impedire, direttamente o tramite il suo giro, che il bene sia utilizzato. Ma il suo ostruzionismo oggi non è necessario: la scarsa sensibilità istituzionale e l’insufficiente lavoro dello Stato nel settore moltiplicano le difficoltà. Non sorprende che, come è accaduto a Palermo, la presidente di un tribunale che si occupa di sequestri e confische sia costretta a lasciare l’incarico per una indagine aperta nei confronti suoi e di suoi presunti beneficiari: è il sintomo di un quadro di insieme.

I beni sottratti ai mafiosi si dividono in tre categorie: il denaro contante e i titoli monetizzabili; i beni immobili; le aziende. La situazione attuale vede nel fondo che gestisce la prima categoria di beni più di tre miliardi di euro pronti a essere destinati per metà al ministero dell’Interno e per metà a quello della Giustizia: essi invece giacciono inutilizzati, senza che nessuno sappia dire perché; vede migliaia di case che dopo la confisca non sono assegnate a nessuno: la piena destinazione sociale di questo patrimonio risolverebbe larga parte dell’emergenza abitativa in non poche città, Roma in testa; vede infine aziende importanti fallire, con centinaia di dipendenti che perdono il posto di lavoro e la residua fiducia nello Stato.

Tutto questo è o non è un insieme di ragioni valide per individuare la questione come prioritaria, e per atti istituzionali, anzitutto di governo, conseguenti? Perché invece non accade nulla?

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