Tenetevi la tessera, mi tengo la libertà

Lettera dell'ex vicedirettore di Libero che si è dimesso da giornalista. E che qui descrive come il tiro al bersaglio continua

Caro direttore, volevo scrivere allo zio di Berlicche o a Berlicche, ma sono abbastanza stufo di avere a che fare con diavoli professionisti, sicuramente iscritti all’Ordine dei demòni, sia pure del tipo simpatico. Preferisco rivolgermi a degli amici. Quale sei tu e quali so essere i lettori di Tempi. L’amicizia è una roba da dilettanti non da professionisti. Non ha deontologie, ma solo una grande regola. Quella di non avere codici salvo l’esserci. Essere cosa da dilettanti: dà diletto.
Racconto la mia vicenda attraverso alcuni episodi. Ho scritto un libro intitolato Don Giussani. Vita di un amico. Hai avuto la generosità di pubblicarne in anticipo un capitolo, per cui i lettori sanno di che cosa parlo. L’ho scritto in una specie di furia. Ero abbastanza travolto dai casi miei, giudiziari e professionali, la storia che coinvolgeva il Sismi, i servizi segreti, per intendersi. Mi sembrava di aver qualcosa di più importante da dire che dovermi difendere. Qualcosa di più vero che aveva investito la mia vita: ed era quella persona che aveva come unico contenuto della sua vita un’umanità resa piena da Gesù Cristo. Non sto a dir di più. Avevo paura di sporcarne la fotografia con le mie dita unte di storie infelici e ingiuste. Temevo che la mia reputazione rovinata da Berlicche e dai suoi potesse impedire di guardarlo. Alcuni amici mi hanno incoraggiato. E il libro – con limiti che chi lo legge scoprirà dopo tre righe – è saltato fuori. L’ho scritto in quindici giorni mentre mi occupavo di altro. Uno dirà: si vede. Ma l’avevo dentro di me da parecchio tempo.
Dopo di che si trattava di farlo sapere al pubblico. Ho trovato subito Libero disponibilissimo. Tu anche. Avvenire qualche rigo: io sono pesante da digerire, adesso più che mai. Lo so. Ed ecco che un giornalista del Resto del Carlino, dove avevo lavorato, si fa vivo. Mi chiede se sono disposto a un’intervista. Io lo avviso: «Avrai delle grane». Risponde: «Ma no, me l’ha chiesto il direttore, non preoccuparti ti faccio rileggere il virgolettato». Gli ripeto: «Non voglio darti problemi». Mi manda il virgolettato. L’intervista è bella, scritta da uno cui interessa don Giussani, ma interesso anch’io.
Ecco il passaggio più delicato.
Il peccato e i peccati: Renato, sai che dobbiamo parlare anche della tua vicenda giudiziaria. Hai collaborato con i servizi segreti, hai patteggiato una pena di 6 mesi, l’Ordine dei giornalisti ti ha sospeso per un anno dalla vicedirezione di Libero. Qualche giornale ti ha trattato come un mostro. Dove sta il peccato?
Io mi sento a posto con la coscienza. E sono convinto – anzi, arciconvinto – di aver agito per il bene e di non aver fatto del male a nessuno, proprio a nessuno. Tutto quello che ho fatto è stato per difendere la verità e le persone a rischio della vita.
Proprio recentemente il generale Pollari ha detto: Renato Farina è stato determinante per la liberazione di Giuliana Sgrena.
Confermo, è vero. Le parole di Pollari mi hanno fatto piacere.
E quasi nessun giornale le ha riportate. A parte il tuo direttore Vittorio Feltri che ha scritto: «Se il Sismi salva la Sgrena va bene, ma perché se un giornalista aiuta il Sismi a salvare la Sgrena è degno di essere cacciato?».
Esatto. Fai un po’ te.
Hai mai pensato come commenterebbe la vicenda don Giussani se fosse ancora vivo?
Una volta mi disse che mi avrebbe accolto anche se fossi arrivato da lui con le mani sporche di sangue.
Figuriamoci se non ti perdonerebbe.
Mah, non so, non so nemmeno se tutto questo c’entra con il perdono. Forse mi sgriderebbe, forse mi abbraccerebbe, chi lo sa. Di certo mi vorrebbe bene, ancora più bene.
Mi chiede se va bene. Io gli rispondo: grazie. Poi mi fa sapere che c’è stato qualche problema al giornale. Intuisco che si è mosso il Comitato di redazione. Il collega mi farà sapere. Deve fare dei tagli. Benissimo. Mi fido. E comunque sono grato si renda noto ai lettori di quotidiani dove mi sono fatto conoscere un poco (Carlino, Nazione e Giorno) che c’è qualcosa che può essere loro utile. Sono affezionato a quelle persone, sono riconoscente al direttore Giancarlo Mazzuca che comunque permette nell’ostracismo generale di dare questa notizia. Finalmente mi dicono che c’è l’intervista. Noto che non è stata firmata. Ci resto male. Forse si vergogna anche lui di me. Poi, però, capisco. Nell’introduzione all’intervista compare questo inciso: «È in libreria in questi giorni Don Giussani, vita di un amico (Edizioni Piemme) scritto proprio da Farina (che ha appena patteggiato con il tribunale per la sua vicenda di “agente Betulla” ed è stato sospeso per un anno dall’Ordine dei giornalisti)». In compenso le mie risposte sul caso in questione non ci sono.
Umberto Eco chiamava questo modo di fare «censura additiva». Si inquina qualsiasi mia frase e parola. Lo mettevo nel conto, ma dispiace lo stesso. Oltretutto nessuno, ma proprio nessuno, né in sede giudiziaria né in sede di Ordine, ha osato scrivere di me come “agente Betulla”. Se sono un agente, dovrei avere la pensione, la liquidazione. Non c’è un sindacato degli agenti 007 che mi tuteli?

Mia moglie e i miei figli
Lì c’è scritto che l’Ordine dei giornalisti mi aveva sospeso. In realtà avevano già deciso di liquidarmi. Non ho voluto che perfezionassero l’ingiustizia. Non ho il diritto di cercare la mia stessa forca. Avevano chiesto la «mia autoradiazione». Ci sono agenzie Ansa che lo attestano. Il presidente che deve giudicarmi si esprime a priori in questo modo. Ovvio cosa voglia fare se gli capito sotto mano, non vi pare? Inoltre ha un peso di condizionamento non comune. Ero incerto però. Avevo desiderio di chiedere una seduta pubblica proponendo a qualche radio di trasmetterla in diretta. Sono sicuro delle mie buone ragioni. C’è l’imperfezione delle cose umane. Ovvio. Mi faranno fuori, ma le darò anche.
Poi però c’è il senso di responsabilità. Sono sottoposto a intimidazioni forti da parte di gruppi eversivi, i quali si sono messi a pedinarmi assai prima della questione del Sismi. Una risonanza pubblica esporrebbe me e la mia famiglia (sì perché hanno osservato e seguito anche mia moglie e hanno nominato anche i figli nelle loro rivendicazioni) . Mi convince però un foglietto che mi fa trovare mia moglie sul tavolo. Lei mi ha sempre stimato più dei miei meriti. Comunque eccolo: «Pur restando in questo Paese non desidero più stare con voi. Portate pure il fardello di uomini grigi, fate quello che siete abilitati a fare: strangolate, perseguitate, non date tregua. Ma senza di me. Restituisco la tessera n. 1471» (Georgij Vladimov si dimette dall’Unione degli scrittori dell’Unione Sovietica).

Fuori dalla giurisdizione domestica
Francesco Cossiga conferma che faccio bene. Mi dimetto, restituisco la tessera. Non sono più sottoposto alla giurisdizione domestica, si chiama così, dei miei pari, perché non sono miei pari, io sono fuori. È gente che non ha speso una parola mentre arrivavano i proiettili a casa mia. L’Unità ha scritto: «Speriamo che la scorta che ha Farina sia privata, sarebbe il colmo se lo difendesse lo Stato», e questo in presenza non di minacce generiche ma di atti precisi. La traduzione, fornitami da Magdi Allam, che di terrorismo si intende, è stata: «Vuol dire che se ti accade qualcosa, gli autori sono giustificati. Conosco questo linguaggio». Ovvio: a livello inconscio, spero. Dopo che io non ci sono più tra di loro, il segretario dell’Ordine, Vittorio Roidi, spiega che pensano di potermi giudicare lo stesso.
E Lorenzo Del Boca, messo in quel posto come esponente del centrodestra, dice ufficialmente: «Quando i fatti apparvero in tutta la loro gravità invitai Farina a fare un passo indietro ed autosospendersi così da togliere se stesso e il Consiglio dall’imbarazzo provocato da una vicenda inquietante. Adesso è troppo tardi. Mi auguro che il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti possa comunque giudicare Farina anche in presenza delle sue dimissioni e auspico che le decisioni siano doverosamente severe, cosicché i colleghi ed i cittadini sappiano che esistono limiti invalicabili che non è consentito superare e oltre i quali, non trova posto né la professione né l’informazione». Del Boca è bugiardo. Disse: autoradiarsi non autosospendersi. Ora come presidente del Tribunale professionale pretende di marchiare chi non c’è più, e sa già che le decisioni saranno «doverosamente severe». Come può pensare se stesso come giudice imparziale? Anche se si astenesse, è chiaro il potere di condizionamento che eserciterebbe sui colleghi.

Feltri: «Così forniscono il movente»
C’è un costituzionalista o anche solo un dietologo disposto a dire che sta parlando in nome del diritto? Nessuno però si è ribellato. I colleghi (anzi gli ex colleghi) se ne stanno nella gran parte ligi e buoni. Anzi, se possono, feriscono. L’altro giorno il simpatico “Fronte rivoluzionario per il comunismo” ha piazzato una bomba in un commissariato di Milano. È la stessa combriccola che mi ha spedito pacchi e piombo. Allora Repubblica.it che cosa fa? Specifica: «Un gruppo già noto in Italia e che in passato, proprio a Milano, ha firmato diverse azioni tra cui l’intimidazione nei confronti del giornalista Renato Farina, l’ex vicedirettore di Libero condannato per favoreggiamento nell’inchiesta sul rapimento dell’ex imam Abu Omar». Lo stesso fa il Corriere della Sera. Come dire: hanno le loro brave ragioni. Vittorio Feltri era desolato. Ha commentato: «Così forniscono il movente».
In questa situazione, ho fregato Berlicche. Ma non tutti i diavoli sono simpatici come lui. Lavorano ancora. Troppo pessimista? Vi pare che non sia di buonumore? Non è vero. Sono contento sul serio, anche se ogni tanto la voce mi va in cantina, e ci resto male. C’è qualcosa di più forte della violenza, e anche dei miei errori. Quelle mani di don Giussani che avrebbe proteso in vita verso di me, sono quelle tue, direttore, e di tutti gli amici. Il male non ci fa paura. Neanche il nostro. Qualcuno – il Signore! – ci ha afferrati, e io so a che ora mi ha preso per il collo, Deo Gratias.

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