Te Deum laudamus per questa malattia, la mia sorella oscura

È aspra, dura, petrosa. Svuota e distrugge e incenerisce tutto. Senza di lei però sarei più sciocca e più cieca. Non avrei riconosciuto Cristo

Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 31 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti), che è l’ultimo numero del 2015 e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2015 Tempi ospita, tra gli altri, i contributi di Antonia Arslan, Sinisa Mihajlovic, Luigi Brugnaro, Marina Terragni, Totò Cuffaro, Gilberto Cavallini, Luigi Negri, Costanza Miriano, Mario Adinolfi, Marina Corradi, Roberto Perrone, Renato Farina.

Ci ho pensato, ho fatto i miei conti. Credo, quest’anno, di dover ringraziare per questa malattia. Io sono una bipolare, ho la sindrome bipolare. Brevemente, è un serio disturbo dell’umore, che fluttua senza controllo da picchi di euforia alla più plumbea depressione. (A dire il vero io di picchi di euforia non ne vedo più da anni, e vorrei chiedere al medico dove è andato, il mio polo positivo, giacché mi imbatto sempre solo nell’altro).

Comunque, non è una malattia da poco: chi ne soffre e non si cura può, nei momenti peggiori, trovarsi a fronteggiare la disperazione. Io mi curo da trent’anni, e tuttavia il controllo sull’umore non è mai del tutto stabile. Da una vita mi sveglio al mattino e faccio un rapido controllo: se sono in grado di alzarmi, di vestirmi, di uscire, vuol dire che va tutto bene. Ma accade che, in pochi giorni o perfino in una notte, scatti il polo negativo. È molto difficile spiegare com’è, a chi non ha sofferto di depressione. Ma immaginate che, di colpo, per un black out in città, venga a mancare la luce in casa, e non abbiate torce, né candele. Restereste immobili, paralizzati, non potendo fare altro che aspettare che la luce torni. Non potreste ridarvi la luce da soli.

Ed è proprio così: è inutile e penoso, quando sto male, sentirmi dire di “farmi forza”. Qualcosa in me si è bloccato, e sono del tutto impotente, dentro a un vuoto di significato che mi sgomenta. Posso solo aumentare i farmaci e chiudermi in camera, al buio, giacché non sopporto più la luce.

Sono soggetta a questa oscillazione da quando ero ragazza. È una cosa dolorosa: nei momenti peggiori sono talmente estranea a tutto, che anche solo uscendo per strada vorrei nascondermi, sentendomi, fra la gente che vive, una clandestina, una intrusa. Poi, dopo qualche giorno o settimana, la sorella oscura se ne va: e tutto torna al suo posto, affetti, lavoro, voglia di vivere.

È una compagna, questa mia sorella, costante. Ritorna ogni anno, al primo impercettibile cenno di primavera, e in autunno, fedelmente. La riconosco, ormai, da lontano, la vedo che si insinua e si allarga fra i pensieri. È inesorabile. Solo quando ho avuto i figli piccoli la mia sorella malinconica si è arresa, non sostenendo la forza leonina e tenera della maternità. Poi, i figli ormai adolescenti, è tornata.

Ma perché ringraziare di una malattia? Perché ora mi rendo conto che la mia ombrosa sorella mi ha fatto del bene.

Quando ero ragazza mi ha costretto a uscire dalla distrazione in cui vivevo, avendo, apparentemente, “tutto”. E allora quel precipitare improvviso, quel guardarmi da fuori e vedermi in realtà povera e sola, è stato una spinta a cercare qualcosa di solido come la roccia, qualcosa che reggesse nei momenti di disperazione. È stata lei, la mia buia sorella, a mettermi in mano un giorno le Confessioni di Agostino, e di lì disordinatamente, a salti, a balzi, a passi all’indietro, a indurmi a riconoscere Cristo nella mia vita.

Poi, a trent’anni, è stata sempre la mia malattia che è deflagrata, e mi ha mostrato, da un letto di ospedale, che non potevo vivere solo di lavoro: che volevo una famiglia, e dei figli, anche se non lo avevo mai capito. La sorella oscura con le sue lame taglienti scarnificava le apparenze, giungendo all’essenziale. Quasi mi conoscesse bene, e assai meglio di me.

Ogni cosa vacilla
E adesso, quando puntuale lei si riaffaccia e io vacillo, e mi rannicchio su di me smarrita, mi dice in fondo che tutto ciò che ho, che pure è molto, è in verità ancora così poco. La sorella oscura è severa: saggia con le sue mani tutto ciò che posseggo, e mostra come ogni cosa vacilli, e come tutto, e io stessa, siamo in verità così fragili, così precari.

Ma dopo giorni, come dal fondo di un tunnel si riaffaccia una piccola luce. Sfrondata ogni apparenza, rimane solo per me di vero, e vero per sempre, Gesù Cristo. Ripenso alle parole che rivolse alla Samaritana, al pozzo: «Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è, colui che ti chiede da bere, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva». C’è un’acqua viva che sgorga di nuovo, da un pozzo fondo e segreto: ma è la sorella oscura che mi ha spinto sull’orlo di quel pozzo. Aspra, dura, petrosa sorella. Senza di lei però sarei più distratta, più sciocca e più cieca.

Stamattina lei tace, mite, in disparte. Il mio Te Deum quest’anno è per lei, che pure mi ha dato molta sofferenza. Per lei che svuota e distrugge e incenerisce, ma discerne l’autentico dal fasullo; per lei che, inesorabile, mi conduce – recalcitrante, cocciuta, riottosa – verso il solo amore vero.

Foto strada buia da Shutterstock

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