Sull’orlo di una crisi di nervi

Belgrado

Nessuno passando davanti all’ottocentesco palazzo al numero 20 della tranquilla Svetozara Markovica penserebbe mai di stare sfiorando una delle scene fatali della tragedia balcanica che risucchiò nel gorgo dell’autodistruzione l’Europa intera. «Qui, in questa sala, l’ambasciatore austro-ungarico consegnò l’ultimatum al ministro degli Esteri serbo e qui, sui quattro scalini fra il portone e l’atrio, cadde fulminato da un infarto l’ambasciatore russo quando scoprì che era arrivato troppo tardi all’appuntamento». Monsignor Stanislav Hocevar, sloveno e vescovo cattolico di Belgrado, parla un italiano perfetto. La curia in cui risiede e dove si trovano tutti gli uffici diocesani altro non è che l’antica ambasciata austro-ungarica a Belgrado. Dopo l’attentato di Sarajevo che costò la vita all’arciduca Ferdinando gli austriaci convocarono qui le autorità serbe e dettarono loro richieste inaccettabili. Il rappresentante diplomatico dello zar, che avrebbe dovuto mediare fra le parti, giunse quando già il plenipotenziario imperiale era partito alla volta di Vienna. E guerra fu. Adesso in cima agli scalini dove l’ambasciatore fu stritolato dal senso di colpa c’è una porta a vetri con medaglioni di bronzo che riproducono la parola “pace” nelle varie lingue. E nelle sale del pianterreno campeggiano le pitture murali di Marko Rupnik, dove i simboli cristiani dell’Oriente e dell’Occidente sono visivamente composti in ecumenica armonia.
Winston Churchill soleva dire che i Balcani producono più storia di quanta ne riescono a consumare. Una formula brillante per mettere in guardia sul fatto che le loro tensioni sembrano destinate fatalmente ad essere esportate nel resto del continente. E gli esiti, insegna la storia, possono essere catastrofici. Perciò non è senza apprensione che oggi si assiste all’ennesimo acme di crisi in Serbia: una elezione presidenziale dove il candidato ultranazionalista Tomislav Nikolic (leader ad interim del Partito radicale di Vojislav Seselj, processato all’Aja per crimini di guerra) ha perso di un soffio contro il capo di Stato uscente filoeuropeo Boris Tadic; una coalizione di governo agonizzante; la prospettiva di elezioni anticipate che si terrebbero all’indomani della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, dunque un’occasione ghiottissima per gli ultranazionalisti per fare il pieno di voti; un Accordo di associazione e stabilizzazione con l’Unione Europea sempre più lontano, sia per le onerose condizioni preliminari che si chiede a Belgrado di adempiere, sia per la volontà del primo ministro Vojislav Kostunica e del leader dell’opposizione Tomislav Nikolic di non fare più nulla con un’Europa che promuove l’indipendenza del Kosovo. E sopra tutto questo le manovre della Russia di Vladimir Putin, che coglie al volo l’opportunità per contrapporre la sua influenza a quella di Europa e Nato nei Balcani e che si compra per un pezzo di pane la Nis, l’ente per l’energia serbo, la perla delle aziende di Stato da privatizzare.
Loro, i serbi che con un po’ di mal di pancia hanno confermato il democratico filoeuropeo Tadic alle presidenziali, tendono a rassicurare: «L’Europa coi suoi errori ha fatto molto in questi quindici anni per alimentare i nazionalismi nei Balcani, ma sono sicuro che il nazionalismo come ideologia non trionferà in Serbia». Padre Radovan Bigovic è un dinamico pope ortodosso, gettonatissimo da stampa e televisione tutte le volte che si tratta il tema religione e democrazia, e promotore di iniziative ecumeniche. «Imporre una soluzione unilaterale per il Kosovo che non è condivisa sia dai serbi che dagli albanesi è un altro errore che l’Europa fa, e questo spingerà molti fra le braccia dei nazionalisti. Ma la maggioranza dei serbi resta pro-europea, come si è visto alle presidenziali, e non ci sarà un’altra guerra per il Kosovo». «Anche se Nikolic vincesse le prossime elezioni, la Serbia non ricorrerebbe mai alla forza per sottomettere di nuovo il Kosovo», dice Miroslav Prokopijevic, economista autorevole direttore dell’Istituto di Studi Europei e protagonista del movimento anti-Milosevic. «Sappiamo bene che gli americani reagirebbero come nel 1999. Quel che Nikolic farebbe, sarebbe ostruzionismo al Kosovo indipendente in tutte le sedi internazionali e fine delle trattative per entrare nell’Unione Europea».

Disoccupazione e corruzione
Le rassicurazioni non rassicurano del tutto. Secondo un’inchiesta di qualche mese fa oltre il 70 per cento dei serbi vuole l’adesione alla Ue, ma sta di fatto che solo metà degli elettori (51 per cento) ha votato per il presidente filoeuropeo. «Le ragioni sono almeno due», spiega Zoran Stojiljkovic, accademico della facoltà di Scienze politiche e fondatore della confederazione sindacale indipendente Nezavisnost al tempo della lotta contro Milosevic. «Anzitutto la transizione economica ha prodotto dei vincenti ma anche dei perdenti. Da quando c’è la democrazia il Pil cresce a una media di oltre il 5 per cento all’anno, ma molti hanno perso il lavoro a causa delle ristrutturazioni. Nei sondaggi un terzo delle persone dichiara di stare peggio di prima dal punto di vista economico. Fra questi ci sono gli elettori di Nikolic: persone con basso livello di studi, disoccupati sopra i 45 anni che non trovano un altro lavoro, giovani in cerca di prima occupazione. Bruxelles ci aiuta con fondi per le infrastrutture, ma fa troppo poco per quanto riguarda questo cruciale problema: il reinserimento dei di-soccupati. Ma ancora più importante è la percezione che la dirigenza governativa è molto corrotta, che i politici si sono arricchiti alle spalle della gente e che il sistema giudiziario non li punisce. Da qui il voto di protesta». «I serbi si dichiarano desiderosi di entrare in Europa finché non si passa dalle parole ai fatti», scuote la testa Prokopijevic. Cambiare le proprie abitudini, rinunciare al posto di lavoro garantito dallo Stato e impegnarsi nell’economia di impresa non è affatto facile. E la politica del governo non ha aiutato: gli aiuti dall’estero sono stati usati per interventi assistenzialisti mentre le leve dell’economia sono rimaste nelle mani della burocrazia e dei gruppi di interesse. La crescita è del 5 per cento all’anno e gli stipendi medi sono superiori a quelli degli altri paesi balcanici tranne Croazia e Slovenia, ma se avessimo fatto le riforme adesso avremmo tassi di crescita del 10 per cento e uno sviluppo paragonabile a quello dei paesi baltici. Dopodiché, è vero che l’indignazione per la corruzione e per la questione del Kosovo hanno inciso sul voto».

Due diverse visioni dello Stato
«Nikolic è andato vicino a vincere le elezioni per il suo programma populista in economia, non perché è intransigente sul Kosovo», commenta Miljenko Dereta, regista caduto in disgrazia ai tempi di Milosevic, quando firmò la prima petizione di intellettuali serbi contro il dittatore, oggi direttore di Civic Initiatives, la più importante Ong serba di impegno civile. «Nessun partito serbo è favorevole all’indipendenza del Kosovo e nessuno, nemmeno quello di Nikolic, propone di fare la guerra per riprenderselo. La vera differenza è che Nikolic e Kostunica vogliono rompere i ponti con l’Europa se questa riconosce il Kosovo, mentre Tadic vuole comunque entrarci. E tuttavia le elezioni non sono state una competizione fra filoeuropei e nazionalisti, ma fra chi vuole introdurre in Serbia gli standard politici ed economici europei, e chi continua a credere nelle vecchie ideologie del controllo dell’economia da parte dello Stato. Fra chi è consapevole delle complessità e delle opportunità del mondo globalizzato, e chi invece vive ancora in un mondo di miti romantici che devono restare intatti, il mondo della spiritualità serba centrato sulla venerazione per il passato e sulla teoria del complotto internazionale contro i paesi ortodossi, su una solidarietà storica coi fratelli russi, slavi e ortodossi, che in realtà non è mai esistita. Il simbolo di questo non è Nikolic, ma Kostunica, un vero caso clinico». «Kostunica è un politico di stampo ottocentesco, uno che è veramente convinto di poter impedire l’indipendenza del Kosovo grazie all’aiuto dei russi», spiega Stojiljkovic. «Il problema è che in Serbia un governo democratico esiste soltanto se il partito di Kostunica (Dss), col suo 8 per cento, appoggia il partito di Tadic (Ds). Per loro due vale quel verso di un poeta latino: “Non posso vivere né con te, né senza di te” ». Kostunica approfitta del suo ruolo di ago della bilancia per farne di tutti i colori. L’ultima è l’accordo con Gazprom per la vendita ai russi della Nis, l’ente di Stato degli idrocarburi, e per la partecipazione della Serbia alla realizzazione di South Stream, il gasdotto balcanico rivale di quello progettato dall’Unione Europea, che si chiama Nabucco e dovrebbe collegare i giacimenti di Kazakistan e Azerbaigian all’Europa occidentale. «Questo affare è uno scandalo», s’indigna Sijka Pistolova, già giornalista di B-92 e oggi direttrice di Energy Observer, magazine online specializzato nei problemi energetici dei Balcani.

Il trucchetto del Cremlino
Secondo la Pistolova, «la Nis verrà venduta ai russi senza gara, a un prezzo inferiore di cinque volte a quello di mercato, in cambio della promessa di costruire un ramo di South Stream attraverso la Serbia e di fare un po’ di investimenti nei depositi di stoccaggio del gas, e per gratitudine per quanto fanno per il Kosovo. È assurdo, perché in Kosovo fanno semplicemente i loro interessi e non si spingeranno più in là di quelli, e perché non c’è nessuna garanzia che attraverso la Serbia passerà il ramo principale di South Stream e non invece, come pensiamo in tanti, solo uno secondario. Ma tutto questo non avviene solo per ingenuità della controparte serba, no: nel governo c’è gente che si arricchirà personalmente con questo affare, ai danni del nostro interesse nazionale. Quel che mi sconcerta è l’inettitudine di Bruxelles: la Birs (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) non ha in programma investimenti negli oleodotti balcanici, mentre i russi si prendono tutto; avete fatto chiudere tutti i reattori nucleari della Bulgaria, che era autosufficiente, per ragioni di sicurezza, e poi lasciate il mercato bulgaro ai russi, che costruiranno la nuova centrale. A volte mi sembra che a Bruxelles le decisioni le prenda un bambino scemo».
Sì, l’Europa sta facendo molto per perdere la Serbia: negligenza sulla questione Kosovo, noncuranza circa le problematiche energetiche della regione e le mosse della Russia, eccessive condizionalità imposte per il patto di associazione e stabilizzazione, finanziamenti discutibili che privilegiano l’informatizzazione della Pubblica amministrazione alla formazione dell’imprenditoria. «Adesso che abbiamo perso il Kosovo non voglio perdere anche l’Europa», dice intristito Stojiljkovic. Ma nei palazzi di Bruxelles ci sono solo bambini scemi? 

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