Sport e media cavalcano l’onda del “dramma” dei transgender

Discutere il caso di Sasha Jane Lowerson, surfista australiano che sbaraglia donne e uomini, è impossibile: la sofferenza di genere non ammette controcanto, solo premesse e conclusioni dei giornali sulla "civiltà" di chi contesta i suoi primati

Sasha Jane Lowerson sulla tavola (foto da Instagram)

«Nota dell’editore: avremmo dovuto dirlo prima, ma a prescindere da cosa pensi su questo argomento, cerchiamo di essere civili». L’equilibrio è diventato un problema anche per i redattori di Stab Magazine, la rivista australiana di surf che di finire risucchiata dalla risacca di commentatori imbestialiti non ne vuole sapere.

Tutto ha avuto inizio il 15 maggio, quando Sasha Jane Lowerson ha demolito la concorrenza ai campionati statali dell’Australia occidentale conquistando il primo posto sia nelle competizioni Open Women’s sia Open Women’s Logger. Non è la prima volta: già nel 2019 aveva portato a casa lo stesso titolo, solo che si trattava dei campionati di longboard maschile, e invece che Sasha Jane si chiamava Ryan Egan. Va da sé che a poco più di un anno dalla transizione di genere i titoli dei giornali nei giorni scorsi fossero tutti sulla surfista trans australiana “entrata nella storia” vincendo in tutte le categorie.

Sasha Jane, transgender che nacque Ryan

Sasha Jane Lowerson ha 43 anni, adora farsi i selfie con rossetto e viso mascelluto e ha letteralmente demolito le avversarie che accanto al suo fisico statuario paiono le nuotatrici sbaragliate da Lia Thomas ai campionati femminili della Ivy League. «Ho iniziato la transizione all’inizio del 2021. Fino ad allora ho vissuto nascondendomi dalle persone che facevano surf, ho smesso di surfare per sei mesi. Praticamente ho trascorso sei mesi fuori dall’acqua. Poi una mattina mi sono svegliata e ho detto: “No, è stata la mia vita, non posso semplicemente allontanarmi dalla mia passione”». Così Lowerson a The Australian: un’intervista drammatica in cui confessa di aver più volte tentato di suicidarsi, immediatamente rilanciata dai giornalisti a caccia di supporter della causa trans (e surfiste che hanno battuto colleghi maschi in competizioni miste – non è raro che accada nel surf) per sedare le inevitabili polemiche.

«Orribili commenti, arretrati e bigotti», «come donna, credo che le atlete dovrebbero essere solidali con le trans», dice la longboarder Lucy Small. «Sono 100 per cento pro trans. Sono anche al 100 per cento pro donna e al 100 per cento per l’uguaglianza delle donne. Quando si tratta specificamente di sport femminili, è difficile essere tutte e tre queste cose allo stesso tempo», osa ammettere Keala Kennelly, campionessa mondiale di Big Wave, virgolettati riportati in calce ad ogni articolo. «Non ho la soluzione. Tuttavia, avere conversazioni RISPETTOSE, non aggressive e collaborative è un inizio».

O siete con me o peggio per voi

Il fatto è che anche ai profani dello sport basta un’occhiata a Sasha Jane Lowerson per vederci inevitabilmente un uomo fatto e finito, per contestare il suo intascarsi l’ennesimo premio in denaro destinato alle donne, nonché per accusarlo di avere usato la sua sofferta storia personale per fare pressione sugli organizzatori delle competizioni femminili: «Ho semplicemente telefonato ai vertici, spiegando: “Ehm, sono io. L’ultima volta che ho gareggiato per un titolo australiano sono arrivato terzo. Cosa pensate di fare?”. Sono sempre stata franca su questo», ha spiegato Lowerson. «Ho detto così: “Ci sono due modi. Possiamo farlo tutti insieme e sarà magnifico, altrimenti sarà terribile, un circo e sarete voi gli unici a implorare che la faccenda si risolva. Comunque io non vorrei affrontare tutto questo, perdendo tempo».

Risultato? Una nuova policy: «Le persone non binarie sono benvenute e incoraggiate a partecipare alle gare di surf. Surfing Australia e Australian Surfing Organizations sono incoraggiate a fornire opportunità per eventi misti o neutrali rispetto al genere, ove possibile» e, laddove non siano previste competizioni aperte a tutti, «le persone non binarie possono partecipare in base al sesso assegnato alla nascita o nella categoria di genere maschile o femminile che più afferma il loro genere».

Non è più a tema lo sport ma il dramma del transgender

Travolti da una valanga di commenti “scortesi” e voci scontente dal mondo del surf, Stab magazine ha lanciato un sondaggio tra i suoi 1,1 milioni di follower su Instagram. La domanda era: “I surfisti transgender dovrebbero essere autorizzati a competere nella loro categoria di genere identificata?”. Le risposte riflettono in pieno quelle già raccolte nelle categorie come il nuoto o l’atletica: il 27 per cento degli intervistati è a favore dell’inclusione, il 73 per cento non ne vuole sapere. Nel maggio 2021 Gallup ha condotto una analoga indagine tra residenti in 50 stati Usa. Anche qui, agli intervistati è stato chiesto se gli atleti transgender dovessero essere autorizzati a competere nella loro categoria di genere identificata e per il 62 per cento degli americani la risposta è naturalmente “no”.

E questo è un problema: se la maggioranza delle persone comuni ritiene di buon senso considerare il “vantaggio biologico” del “sesso assegnato alla nascita” per organizzare competizioni realmente eque, a chi ha in mano lo sport tocca cambiare regole e mentalità: non per nulla organizzazioni e federazioni sportive, da NCAA, MMA, WMBA, NWHL, fino ai comitati olimpici, hanno deciso che la rieducazione delle masse passa per l’inclusione dei transgender nelle categorie di genere in cui si identificano.

Così i media cavalcano l’emergenza transfobia

A dare man forte all’operazione – e trasformare non più in questione di sport ma di “comprensione” del dramma del transgender – media, stampa e giornali. Tutti pronti a cavalcare “l’emergenza transfobia” documentata attraverso l’onda d’urto delle storie di dolore e sofferenza degli atleti come Lowerson, costrette a gareggiare tra maschi “tossici”, “nascondersi”, “tentare il suicidio” finché non ottengono quello che vogliono: un posto nella squadra e sul podio femminile. E fa niente se l’ossessiva attenzione mediatica a casi eccezionali usati come grimaldello per “stravolgere lo sport” ha completamente alterato la percezione della “gente comune”: secondo l’Harper Index gli americani sono convinti che il 21 per cento dei loro connazionali sia transgender, nella realtà solo lo 0,6 per cento della popolazione si identifica come tale.

Ma non c’è posto per numeri e buon senso nelle redazioni in servizio permanente alla causa dell’inclusione con tutte le dovute premesse e le conclusioni: «Si prega di ricordare che questo è un argomento molto controverso a più livelli – è ancora Stab in margine a una intervista a Lowerson -. Vogliamo promuovere uno spazio di discussione produttiva, quindi ricordiamoci di essere civili e che ci sono persone umane dall’altra parte dello schermo».

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