«Sono nella notte e voglio vederci chiaro»

La lezione di Camus che ne La peste descrisse un mondo in cui tutti sono infetti, in sempiterna lotta tra fare il bene e il male

La claustrofobia si fa sentire dopo molti giorni chiusi in casa con la compagnia sempiterna della tv. Solitamente, mi sottraggo a quest’ultima, ma, dato che ho una famiglia numerosa, qualche tv accesa c’è sempre. È facile immaginare la notizia dominante, a tutte le ore, in tutte le salse. Si tratta di un flusso incessante di voci sovrapposte e tanto brusio che molti considerano informazione. Le informazioni, che poi si trasformano in connotazioni, producono sopratutto effetti emotivi, non richiedono il nostro ascolto, ma solo un distratto prestare orecchio che a tratti può generare sussulti perché espressioni preoccupate si sovrappongono ad altre.

Quando si sente dire che gli anziani sono soggetti più a rischio si dice una cosa ovvia. Dire invece che tra due persone l’anziano è quello che va sacrificato, è come esprimere un Giudizio Universale la cui potestà viene trasferita dall’Altissimo ad un soggetto non abilitato alla funzione. Anche la persona più serena ed equilibrata del mondo sente il sottile fruscio di un fato incombente che sta bussando alla porta di casa. È abolita ogni domanda sul senso del vivere perché siamo indotti a pensare che, prima o poi, si deve morire e questa è una legge inesorabile a cui tuttavia, da sempre, l’uomo non si arrende facilmente. E, da quanto si dice, se dobbiamo andarcene da questo mondo, dobbiamo farlo senza dare troppo nell’occhio: funerale al massimo coi parenti stretti.

In questa atmosfera surreale la sera di martedì 10 marzo un apparentemente commosso Enrico Mentana ha chiuso il Tg delle 20 rendendoci partecipi di una lettera dell’attuale compagna di Peppino Englaro: lei cinquant’anni e lui 79, ove si inneggia all’amore che il Covid-19 non può fermare, amore che non ha età, celebrando Peppino come eroe della vita (sic). Ho pensato a sua figlia Eluana, ricordate?, non riuscendo a evitare immenso dolore.

Nell’epoca del coronavirus l’umana pietas subisce una metamorfosi silenziosa e una strana danza di immagini accompagna il corteo di una civiltà che ha tramutato i valori. Albert Camus ne La peste (1947) immagina un’epidemia scoppiata ad Orano, in Algeria, che assurge a metafora della condizione umana. Il tema del romanzo racchiuso nel titolo è il dolore del mondo, lo strazio del morire che arriva all’improvviso, invisibile, e colpisce senza pietà anche gli innocenti come il figlioletto del giudice Othon per cui non valgono le preghiere di padre Peneloux. Il cielo non ascolta il grido dell’uomo e il posto di Dio lo hanno preso pianeti e stelle lontane.

L’impotenza dei medici e delle cure contraddice la tensione ad una felicità solare, giovane, sensuale. Non si cerca la salvezza, si brama la salute senza la quale si è disperati e soli. Duecentomila persone in quarantena nella città di Orano mostrano l’estrema fragilità della condizione umana. Come dice Tarrou, personaggio a cui Camus affida la propria riflessione sulla profondità del bene e del male, nessuno è innocente, siamo tutti nella peste e gli uomini non possiamo salvarli; al massimo possiamo fare il minor male possibile e, qualche volta, anche un po’ di bene. La città assediata dalla peste e isolata dal resto del mondo è il ritratto commovente della capacità di sacrificio di alcuni ed anche lo specchio dell’abiezione misera di quanti sono accecati dall’odio, da risentimenti, dalla paura. A più di settant’anni di distanza, è impressionante vedere riflessa nel romanzo di Camus l’estrema fragilità della condizione umana oggi messa a nudo in modo quasi impietoso.

Eppure la paura non riesce a vincere, anche se l’età del mondo pare prossima alla fine. C’è in ogni epoca un punto impressionante di non ritorno, ma vi sono anche disseminati frammenti di umanità ove possono crescere imprevisti germogli di vita nuova che mai hanno lasciato gli uomini soli con i loro astrusi filosofemi. Ne La peste di Camus si capisce cosa, e la cattiveria umana, ma anche l’eroismo del sacrificio, l’impeto di voler un bene tragico è ciò che che fa dire a Camus, attraverso Tarrou, che a questo mondo non si può far nessun gesto buono che non produca qualcosa di male, perché tutti siamo infetti. Vi è in ognuno una radicale contraddizione tra questo infinito desiderio di bene e il non riuscire ad essere ciò che vorremmo. «Insomma – disse Tarrou con semplicità – quello che mi interessa sapere è come si diventa un santo». «Ma lei non crede in Dio», disse il dottor Rieux. «Appunto – replicò Tarrou – essere santo senza Dio è l’unico problema che oggi mi interessa».

Il vero problema dunque non è eliminare il male, ma il non esserne posseduti.

La radice del nostro cuore tende a farci possedere le cose, guarire gli altri, possedere la gioia che il dolore allontana, strappare al Cielo un fiotto di luce, e tutto questo può essere la pretesa tragica dei nostri tempi. Tarrou, che presta la sua voce a Camus ne La Peste, chiede con naturalezza al dottor Rieux: «Ma lei crede in Dio? No, risponde Rieux, ma che vuol dire questo? Sono nella notte e voglio vederci chiaro». Forse serve la memoria antica di un possesso che non ci accanisca, ma in qualche modo è dato, nel bene e nel male, come l’accorgersi di una luce che si accende, imprevedibile fioritura del miracolo, fra gli uomini.

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