Sneijder-Inter, mobbing o non mobbing? Parola all’avvocato

«Se l'Inter riesce a offrire una ragione tecnica, allora può stare tranquilla». Parla Matteo Pozzi, avvocato e membro del centro studi di diritto sportivo

Da alcuni giorni il mondo del calcio non parla d’altro: la vicenda di Wesley Sneijder, messo ai margini della squadra dalla dirigenza nerazzurra per indurlo ad accettare una riduzione dell’ingaggio, interroga tutto il mondo del calcio. Al di là delle questioni sportive e umane che riguardano i nerazzurri, dove uno dei protagonisti triplete del 2010 viene lasciato in tribuna per motivi di politica societaria, tanti sono gli addetti ai lavori e i semplici tifosi che si chiedono quanto lecito sia per l’Inter comportarsi in questa maniera, rasentando il reato di mobbing verso l’olandese. Tempi.it ne ha parlato con Matteo Pozzi, avvocato milanese assistente alla docenza per la cattedra di Diritto sportivo dell’Università Statale di Milano, e membro del centro studi di diritto sportivo.

Inter accusata di mobbing e Sneijder pare già con la valigia in mano. Sussistono le misure entro le quali punire la società nerazzurra?
Il problema è uno solo. Sneijder in questo momento non ha ancora agito nei confronti dell’Inter, perché a differenza, ad esempio, del caso Pandev, non ci sono diffide ufficiali. Il macedone anni fa agì contro la Lazio per la violazione di una serie di obblighi previsti nell’accordo collettivo, mi riferisco agli articoli 7.1 e 7.2: questi sono relativi alla giusta causa sportiva per cui un giocatore può essere messo fuori rosa ed escluso dagli allenamenti, e all’aver giocato meno del 10 per cento delle partite di una stagione. Il mobbing sportivo va ricercato nelle violazioni dell’accordo collettivo e della legge specifica, la 91 dell’81, che disciplina i rapporti di lavoro sportivo, oltre agli articoli relativi al lavoro subordinato. Detto questo, se Sneijder volesse intentare qualche azione contro l’Inter non potrebbe far leva sull’esclusione dagli allenamenti o dalla preparazione pre-campionato, come ad esempio fece Pandev con la Lazio, bensì sul fatto di essere escluso dalle partite non per scelta tecnica ma per altri motivi, cioè politiche societarie. Questo però il giocatore deve riuscire a dimostrarlo, anche perché il suo caso è molto meno “diretto” rispetto ad altre vicende di mobbing. Torna in mente il caso di Zanin, giocatore in Lega Pro per il Montichiari: gli era stata imposta una riduzione dell’ingaggio dopo la retrocessione della squadra, ma lui aveva rifiutato. Il giocatore era stato emarginato dai compagni, costretto a cambiarsi da solo in uno spogliatoio a parte. Questo fu un caso estremo, quello di Sneijder è diverso: se l’Inter dovesse trovare una motivata ragione tecnica, allora può stare tranquilla.

La parola mobbing è entrata da ormai 5-6 anni nel nostro vocabolario, e pure nel mondo del calcio abbiamo avuto a che fare con casi di simile reato. Da Pandev a Marchetti, da Jimenez a Marchini, da Ledesma a Falcone. Esiste un confine netto e chiaro tra il mobbing e dei semplici comportamenti delle società che tutelano i propri interessi?
Non esiste una definizione legislativa di mobbing, perché questo è una produzione giurisprudenziale. È stata identificata a seguito di sentenze che hanno ipotizzato una serie di azioni persecutorie e vessatorie che tendono a creare una situazione di lavoro che va a incidere psicologicamente sul lavoratore: venendo escluso dal gruppo, lo stesso si sente turbato e ciò incide sulla sua capacità lavorativa. L’elemento comune a questo insieme di comportamenti è la lesione dei diritti inviolabili della dignità umana e professionale del lavoro, cioè il fatto che in una situazione simile un giocatore veda sminuita la propria professionalità e la propria capacità lavorativa. A mio avviso quello che può integrare la fattispecie di mobbing sono tutti quegli atti che vanno contro l’efficienza sportiva del calciatore, la propria crescita professionale, e il sottomettere tutti questi comportamenti ad una modifica contrattuale, guarda caso in imminenza con la scadenza contrattuale. Nel giudicare un caso di mobbing, non si tiene conto di un singolo comportamento o atto, bensì della condotta complessiva del mobber. Nella vicenda di Sneijder la chiave può essere il fatto che la società sta imponendo una scelta tecnica all’allenatore finalizzata ad una modifica contrattuale, perché, di per sé, il giocatore non è stato escluso dagli allenamenti.

Nei giorni scorsi Luciano Moggi ha fatto un parallelo tra il caso dell’olandese e quanto accaduto anni fa tra la Juve e Manuele Blasi, con i bianconeri poi condannati. Quali sono i punti di contatto tra i due casi? Quali le differenze?
Nel caso di Blasi si era ipotizzata la violenza privata ai sensi dell’articolo 610 del codice penale, non si può quindi parlare di mobbing. Moggi sostiene che in quel caso non ci fu né violenza privata né mobbing, perché dice di aver semplicemente invitato il giocatore a dimostrare il suo valore allenandosi: voleva valutarlo per un eventuale rinnovo e aumento dell’ingaggio, dopo 6 mesi di squalifica per doping da cui il giocatore proveniva. Nonostante questo, si è ipotizzata una condotta violenta nei confronti di Blasi, lo stesso reato per cui, dice Moggi, l’Inter andrebbe colpita nel caso di Sneijder.

Alla fine della scorsa settimana ha fatto notizia la proposta della dirigenza dell’Arsenal, che vorrebbe introdurre nuovi contratti con riduzione dell’ingaggio in caso di mancato raggiungimento dei risultati. Le sembra più un modo per incitare i giocatori a fare meglio, oppure misure adottate per tutelare le società in caso di fallimenti sportivi?
Mi sembra sempre più evidente che ci stiamo avvicinando al modello sportivo americano dei salary cap, che in Europa non ha ancora preso piede. La proposta dell’Arsenal va vagliata, ma è importante comunque tutelare il minimo sindacale, cioè ciò che con l’accordo collettivo va a stabilire i connotati minimi della retribuzione di un calciatore professionista. L’idea dei Gunners rischia di creare grossi problemi per l’inquadramento contrattuale: si potrebbe configurare un caso anomalo di dipendente subordinato, con un ingaggio “X” che potrebbe diminuire in base ai risultati. A mio avviso bisogna però tendere il più possibile al salary cap, cioè a dei tetti salariali massimi oltre cui gli ingaggi non possono sforare.

Quest’estate abbiamo visto partire Ibra e Thiago Silva per un risparmio quantificato dal Milan di 140 milioni, ora l’Inter procede a questa azione con Snejider per motivi economici. Basteranno questi sacrifici a far rientrare le nostre squadre nei parametri del fair play finanziario e raggiungere gli altri campionati?
In questo momento sembra difficile, perché i soldi sono finiti. Abbiamo avuto un calcio che dal ’99 al 2006 ha vissuto di rendita unicamente sui diritti tv: la fonte di maggiore introito per la Serie A, circa il 70 per cento dei bilanci, derivava da questa voce. Non è stata portata avanti alcuna politica di merchandaising, molto rilevante per esempio in Gran Bretagna, o sul ticketing né sugli stadi di proprietà. Gli altri paesi hanno lavorato molto di più su questi fronti, e sono andati a creare una riserva sostanziosa su cui fare affidamento nel momento in cui i diritti tv sono andati a calare. In Italia dopo Calciopoli si è tornati al principio mutualistico dei diritti tv, in virtù della Legge Melandri, togliendo grossi introiti alle grandi squadre che prima, con la vendita individuale, facevano molta più pressione.

Guardando quanto succede all’estero, per certi club questa parola sembra non esistere (Psg, Man City, Chelsea). È davvero possibile, a suo avviso, aggirare i paletti posti dalla Uefa con sponsorizzazioni gonfiate o simili?
Purtroppo sì, perché di strumenti finanziari sfruttabili in questa direzione ce ne sono diversi. In Italia ricordiamo bene ad esempio la vicenda delle plusvalenze, o quella della cessione del marchio. E poi c’è il fatto che la sponsorizzazione viene talvolta fatta dalla stessa società che detiene il pacchetto di maggioranza, o altre idee ancora. Per ridurre in qualche modo le spese sulle società, una possibile tendenza potrebbe essere che i diritti sportivi siano detenuti dagli investitori, come in Sud America: non è più il club che finanzia e compra un giocatore, ma un gruppo di imprenditori che finanzia il calciatore anche nei costi di gestione, ed eventualmente ne ottiene un ricavo nella compravendita. Ma per le normative che abbiamo in Europa il cartellino non può essere detenuto da qualcuno di diverso dalla società sportiva.

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@LeleMichela

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