La mai risolta questione del Kosovo porta nuovi venti di guerra nel cuore dell’Europa

Le tensioni tra Pristina e Belgrado sono frutto di una storia lunga 24 anni. Dai tempi di Clinton a oggi, poco è stato fatto per "chiudere" la questione. E un altro conflitto potrebbe accendersi nel Vecchio Continente

Mentre la guerra in Ucraina è entrata nel decimo mese, riemerge un nuovo conflitto in terra europea, riportando a galla problemi irrisolti, che in un momento di crisi come quella in corso rappresentano un vero tallone d’Achille per il Vecchio Continente: il mai risolto problema del Kosovo. Le tensioni, che ciclicamente oppongono la minoranza serba di religione cristiano-ortodossa, sostenuta dalle autorità della Serbia, e la maggioranza albanese di fede musulmana, sono nuovamente riprese nel corso del 2022, nonostante la presenza sul territorio dal 1999 dei militari della missione Nato Kfor.

La crisi è culminata proprio in questi giorni con l’erezione di barricate e scontri a fuoco dentro e intorno a Mitrovica, la città letteralmente divisa in due considerata il simbolo dello scontro tra i due gruppi etnico-religiosi. A scatenare l’escalation di tensione l’arresto di un ex poliziotto serbo, Dejan Pantic, accusato di aver aggredito agenti di polizia kosovara in servizio.

Il rischio di un’escalation armata

Come già accaduto diverse volte, in brevissimo tempo la crisi si è spostata a Pristina e Belgrado. Dopo giorni di scambi di accuse tra i due governi, lo scorso 26 dicembre la Serbia ha posto le sue truppe in stato di massima allerta vicino al confine kosovaro, con tanto di ispezione da parte del presidente Aleksandar Vucic che ha anche incontrato il patriarca della Chiesa ortodossa serba Porfirije, a cui il 26 dicembre è stato vietato l’ingresso in Kosovo da Pristina. La decisione ha provocato indignazione a Belgrado a causa dell’importanza di una visita del patriarca ai serbi del Kosovo durante il periodo delle festività natalizie (il Natale si festeggia il 7 dicembre secondo il calendario giuliano).

Da parte sua il Kosovo ha chiuso il valico di Merdare, il più importante punto di collegamento con la Serbia, a seguito delle barricate e dei blocchi stradali da parte di etnici serbi, con il ministro dell’Interno Xhelal Svecla che ha accusato Belgrado di essere influenzato dalla Russia. Lo scorso 27 dicembre altre due barricate erano state installate dai serbi nel Kosovo settentrionale: una barricata allestita in un’area urbana a nord di Mitrovica, mentre l’altra a Dudin Krs sulla strada per Leposavic. Per rimuovere tutte le barricate, i serbi del Kosovo chiedono il rilascio dell’ex agente di polizia Dejan Pantic, a cui nel frattempo sono stati concessi gli arresti domiciliari, e anche il rilascio di altri due detenuti, oltre al divieto alla polizia del Kosovo di entrare nelle aree popolate dai serbi del nord del paese. Intanto, il primo ministro del Kosovo Albin Kurti ha affermato che se la forza Kfor non rimuoverà le barricate, lo farà la polizia del Kosovo, aggiungendo che non aspetterà ancora a lungo.

Una crisi persistente che dura da oltre 20 anni

Quella del Kosovo, piccolo paese di soli 1,8 milioni di abitanti, è una storia di calcoli sbagliati frutto anche di due stagioni differenti della politica statunitense e russa. La questione kosovara ha segnato gli ultimi anni della presidenza di Bill Clinton. Il presidente democratico è una sorta di eroe nazionale per i kosovari, per il suo sostegno all’intervento della Nato per difendere Pristina da Belgrado che pose fine a una sanguinosa guerra durata 15 mesi dal febbraio 1998 all’11 giugno del 1999. Tuttavia, Clinton, che all’epoca guidava di un mondo praticamente unipolare (la Russia era ancora quella di Boris Eltsin), non si pose il problema di come risolvere quello che, seppur spacciato come un conflitto interetnico, è sempre stato uno scontro tra musulmani (per altro integralisti) e cristiano-ortodossi.

Il Kosovo ha segnato gli ultimi anni della presidenza di George W. Bush e il primo strappo forte con la Russia di Vladimir Putin che infatti non riconobbe la proclamazione unilaterale dell’indipendenza del piccolo stato dalla Serbia nel febbraio del 2008. Anzi, molti analisti sostengono che la crisi in Georgia avvenuta tra il primo agosto e 12 agosto del 2008 terminata con la l’autoproclamazione delle repubbliche a maggioranza russa di Ossezia del sud e Abkhazia sia appunto frutto del sostegno degli Stati Uniti e dell’Unione europea all’indipendenza kosovara.

La Russia sfrutta la crisi a suo favore

L’insoluta crisi del Kosovo, ormai in corso da quasi 24 anni, continua dunque a rappresentare un problema di enorme portata per l’Europa. La Serbia, che ha presentato domanda ufficiale di adesione all’Unione europea il 22 dicembre 2009, dovrebbe completare i negoziati entro la fine del 2024, ma resta un’importante alleato della Russia che ovviamente sfrutta la situazione a suo vantaggio. Dopo aver paragonato alcuni mesi fa l’indipendenza dei territori occupati dell’Ucraina all’indipendenza del Kosovo, suscitando più di un mal di testa a Belgrado, il portavoce Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato ieri che la Russia “sostiene” il suo alleato Serbia e «sta seguendo molto da vicino ciò che sta accadendo e come vengono garantiti i diritti dei serbi».

«Sosteniamo Belgrado in tutte le azioni che vengono intraprese. La Serbia sta difendendo i diritti dei serbi che vivono nelle vicinanze in condizioni difficili. Naturalmente reagiscono duramente quando questi diritti vengono violati», ha affermato il portavoce del Cremlino.

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