Se l’Ilva chiude è un disastro. Per gli operai e per l’Italia

Il ministro Clini critica la magistratura e l'arcivescovo della città Filippo Santoro si dà da fare per trovare una soluzione condivisa. Intanto si fanno i conti: per l'economia del paese sarebbe un danno

«Per l’Ilva non deve essere perso un centimetro del lavoro fatto finora. Lo ha ribadito il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini a margine di un convegno a Venezia». Il ministro reagisce a quanto deciso ieri dell’azienda di chiudere gli stabilimenti e lasciare a casa cinquemila dipendenti. Questo dopo che la magistratura ha disposto sette arresti sequestrando i prodotti finiti e semilavorati. (Qui l’intervista di Clini a Tempi: “L’Ilva si può risanare”)
«Abbiamo lavorato in questi mesi – ha detto Clini – avendo esattamente in mente l’esigenza di coniugare le attività produttive con la difesa dell’ambiente e della salute: nemmeno un centimetro di questo lavoro va perso». Clini ha criticato la magistratura che, con una decisione «in forte contrasto con l’Aia», «ha assunto un’iniziativa che determina di conseguenza il blocco degli impianti. Noi abbiamo la responsabilità del governo del Paese, dell’applicazione delle leggi. Proprio per questo, avendo in mente come obiettivo prioritario la difesa del lavoro, della salute e dell’ambiente, lavoreremo per la sua applicazione».

L’ARCIVESCOVO SANTORO. Intanto questa mattina su Avvenire è apparsa un’intervista all’arcivescovo della città, monsignor Filippo Santoro (leggi qui l’intervista che rilasciò a tempi.it) nel quale si auspicano «soluzioni condivise». Santoro dice a Marina Luzzi di seguire da vicino la vicenda e di pregare la Madonna affidandole «la Salute la città ed i suoi figli, che non meritano quello che sta accadendo loro. Proprio in questa circostanza siamo chiamati a sostenere la fede del nostro popolo».
L’arcivescovo chiede all’azienda di «andare oltre questo inutile braccio di ferro con la magistratura che non porterà da nessuna parte. Mi sembra che il procuratore Sebastio abbia ribadito la volontà di trovare soluzioni condivise. Ripartiamo da un dialogo ragionevole per il bene di tutti». E dice aglio operai di «non abbandonarsi alla disperazione. Di stringersi ed essere solidali l’uno con l’altro, di non chiudersi nel risentimento. Continuo a sperare che ci possa essere una soluzione condivisa che tenga in conto il rispetto dell’ambiente, della salute e il diritto al lavoro». Infine, una richiesta anche «allo Stato, di cui sia la magistratura che il governo sono parte». Santoro si augura che «possa trovare risposte adeguate in modo che il problema non sia scaricato sulla città. Questo è un caso limite da cui ripartire per difendere i diritti fondamentali della Costituzione come la salute e il lavoro. Non lasciate soli i tarantini».

DANNO A CATENA PER L’ITALIA. Come scrive Enrico Marro sul Corriere della Sera, «se chiude l’Ilva di Taranto, scompare l’ultimo grande impianto in Italia per la produzione di acciaio a ciclo integrale, dall’altoforno ai laminati, ai tubi. Per il gruppo Riva, quarto in Europa nella siderurgia, sarebbe un colpo durissimo. Per l’economia italiana un danno a catena, che colpirebbe, innanzitutto gli altri stabilimenti del gruppo (Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica), quindi l’indotto (oltre ai 12 mila dipendenti diretti, ce ne sono tra i 5 e i 7 mila che vivono dei servizi che ruotano intorno al megastabilimento, il più grande d’Europa, e i clienti, che vanno dal distretto metalmeccanico di Brescia all’industria degli elettrodomestici, dai cantieri navali al settore dell’auto, dall’edilizia al comparto dell’energia. Tanto che Federacciai-Confindustria ha quantificato in una cifra oscillante tra 5,7 miliardi e 8,2 miliardi di euro le ripercussioni negative sull’economia nazionale. Cioè qualcosa che può valere mezzo punto del prodotto interno lordo».

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