Se la cultura del dono diventa celebrazione del denaro

Il Giving Tuesday è iniziativa lodevole, ma qualche serena critica si può avanzare

La colonizzazione culturale americana dell’Italia prosegue, Dopo aver importato la festa di Halloween, da qualche anno anche la corsa agli acquisti del Black Friday, il venerdì successivo alla festa del Ringraziamento, che negli Usa si celebra il quarto giovedì di novembre, è di casa in Italia, come pure tre giorni dopo il Cyber Monday, riservato agli acquisti di prodotti elettronici. Ultima ciliegina sulla torta è il Giving Tuesday, il martedì del dono: nato negli Stati Uniti nel 2012, è approdato in Italia nel 2017 e nel giro di quattro anni si è già consolidato come appuntamento di raccolta fondi per iniziative no profit della più diversa natura. Il sito del Giving Tuesday italiano ospita iniziative di cosiddetto crowdfunding (“finanziamento collettivo” di iniziative presentate a un pubblico sensibile all’argomento) e un concorso a premi al quale l’anno scorso hanno preso parte 270 organizzazioni coi loro progetti; 68.780 persone coi loro voti online hanno deciso a chi sarebbero andati i soldi messi in palio da MyDonor, società che produce software gestionali e servizi per il no profit, e da Innovairre Italia, la consociata italiana dell’agenzia leader mondiale del fundraising, che sarebbe la raccolta fondi degli enti no profit (offre servizi nell’ambito della comunicazione e del marketing). Quest’anno i partecipanti a quella che in Italia è stata chiamata la Giornata mondiale del dono probabilmente sfonderanno quota 300 e si contenderanno quattro premi fra i 6 mila e i 1.500 euro.

Delle iniziative di beneficenza, quando non sono truffe, non si può non parlare bene, e questa del Giving Tuesday, che è nata e che si presenta come la risposta delle persone consapevoli al consumismo del Black Friday, sembrerebbe meritare un duplice apprezzamento per i contenuti di critica sociale che abbina alla colletta. In realtà contiene in filigrana le deficienze culturali e le degenerazioni relazionali che negli ultimi anni abbiamo visto emergere in buona parte del mondo del no profit, e che bisognerebbe cominciare serenamente a discutere. Tanto per cominciare, il Giving Tuesday appare imperniato più sul senso di colpa che sulla gioia di dare: non si mette in competizione con la frenesia consumista, ma la compensa come la penitenza compensa i peccati dopo la confessione. Hai peccato comprandoti il sesto paio di scarpe in due mesi e il terzo cellulare in un anno, ma puoi espiare la tua colpa versando un obolo alla brava gente che si occupa dei bisognosi; oppure, laicizzando la cosa, diciamo che spendendo per il superfluo hai contratto un debito sociale che puoi saldare pagando altri soldi o dando il tuo voto elettronico a un ente che fa del bene. Se facessero sul serio, quelli del Giving Tuesday avrebbero creato un Giving Friday in alternativa al Black Friday. Così invece si mostrano organici e subalterni al mondo del consumismo, del quale rappresentano la propaggine benefica e autogiustificatoria. Non potrebbe essere diversamente, perché (non solo negli Usa ma anche nei numerosi paesi del mondo dove l’iniziativa ha attecchito) i soldi transitano attraverso i conti di Pay Pal e attraverso Facebook, che aggiunge 7 milioni di dollari di suo ogni 7 milioni di dollari di donazioni effettuate su Facebook, e dell’iniziativa sono partner Google, Microsoft e Cisco. Come tutti capiscono, le cinque aziende citate sono fra quelle che beneficiano al massimo dei Black Friday e dei Cyber Monday. La loro filantropia si combina perfettamente con lo spirito degli affari.

Il secondo aspetto problematico del Giving Tuesday è che, nel mentre che dichiara di voler diffondere la cultura del dono, in realtà promuove l’egemonia culturale di quello che Pio XI chiamava «l’imperialismo internazionale del denaro». Lodevolmente il sito italiano dell’iniziativa scrive che la cosiddetta Giornata mondiale del dono «è un invito a donare nel senso più ampio del termine, che si tratti di denaro, oggetti, tempo, ma anche di sorrisi e abbracci», ma nella realtà dei fatti promuove l’equivalenza fra dono e denaro: quello raccolto dalle iniziative proposte al crowdfunding e quello assegnato dal concorso a premi. Dono e denaro in realtà si collocano ai poli opposti della socialità: il primo è personale, il secondo è impersonale; il primo è (dovrebbe essere) insostituibile, il secondo è fungibile; il primo richiede la conoscenza del destinatario e un rapporto specifico con lui, il secondo non presuppone necessariamente nessuna conoscenza e nessun rapporto preesistente fra chi dà e chi riceve. Quando faccio un dono, do all’altra persona qualcosa che ho scelto di dare sulla base della conoscenza che ho di lei: che cosa gli piace, di che cosa ha bisogno, ecc. Il fenomeno sempre più diffuso per cui anziché cose si regalano soldi (“con questi comprati quel che vuoi”) testimonia la corruzione dell’idea di dono, e soprattutto testimonia il deficit affettivo dei nostri rapporti: non sappiamo più cosa può piacere o essere utile all’altra persona perché non la conosciamo più veramente. Se giustamente mettiamo in evidenza che il dono è più del denaro di un’elemosina, che il donare è fatto di «oggetti, tempo, ma anche di sorrisi e abbracci», poi bisogna essere coerenti e dare uno spazio adeguato, anzi quello principale, a questo genere di doni così diversi da quelli in denaro. 

Oggi invece incontriamo sempre più spesso iniziative filantropiche che non hanno più chiara la differenza fra i rapporti donativi mediati dal denaro e quelli più integralmente umani. Un paio di esempi. A causa delle restrizioni imposte dalle misure contro la pandemia da coronavirus, quest’anno il Banco Alimentare non ha potuto organizzare la consueta Colletta alimentare di novembre e ha messo in vendita alle casse dei supermercati e sul suo sito internet una card prepagata corrispondente a una donazione al Banco e sempre sul sito ha reso possibile una “spesa online” pagata con carta di credito o altra card che poi viene consegnata da Amazon alla sede centrale dell’organizzazione. Giustissimo escogitare soluzioni alternative come queste per riuscire a sostenere gli enti che aiutano le persone e le famiglie bisognose anche ai tempi del “distanziamento sociale”. Ma perché scegliere come slogan della Colletta alimentare sui generis del 2020 “Cambia la forma, non la sostanza”, cosa del tutto falsa? La Colletta alimentare è evento di popolo che va al di là dell’accumulazione di generi alimentari per uno scopo sociale: è un’occasione di incontri di ogni tipo, di amicizie che si consolidano o che addirittura nascono, di azione comunitaria, di proposta di un’umanità diversa per chi partecipa come volontario o come cliente che destina parte della propria spesa alla colletta. È avvenimento in senso pieno. Tutto questo va perso quando la spesa viene fatta online o acquistando una card prepagata alla cassa, e bisogna serenamente ammetterlo. Forma e sostanza non possono essere separati in niente al mondo senza conseguenze irreversibili: con la forma se ne va anche la sostanza, ovvero con una forma diversa la cosa è totalmente diversa anche se la sostanza è la stessa. Nel vostro whisky on the rocks provate a sostituire il ghiaccio col vapore acqueo dell’acqua che bolle, e capirete al volo il concetto che cambiando la forma si intacca anche la fruizione della sostanza. 

Oggi un numero crescente di enti no profit e fondazioni commissiona studi volti a certificare il valore economico dei servizi gratuiti che offre. Càpita che un’associazione che offre lezioni gratuite agli studenti bisognosi di aiuto nello studio le cui famiglie non possono permettersi lezioni private faccia quantificare il risparmio che queste ultime hanno realizzato grazie a tale gratuità: sarà il biglietto da visita da mostrare ai potenziali partner istituzionali o imprenditoriali. Ma il rapporto che si crea fra insegnante volontario e studente, lo scambio simbolico che avviene fra i due, la crescita umana del secondo, le gratificazioni di vario genere del primo non sono quantificabili, non sono misurabili col metro del denaro risparmiato. È equivoco ed è molto pericoloso cercare di quantificare qualcosa di eminentemente qualitativo come è un rapporto educativo. Diceva Bob Kennedy che il Pil (prodotto interno lordo) misura tutto, ma non ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Per il denaro vale un discorso molto simile. Come scriveva il filosofo tedesco Georg Simmel, «nella misura in cui il denaro valuta allo stesso modo tutta la diversità delle cose, esprime con differenze quantitative tutte le rispettive differenze qualitative, nella misura in cui il denaro con la sua indifferenza e la sua assenza di colori si pone come il comune denominatore di tutti i valori, diventa il livellatore più temibile, svuota irrimediabilmente le cose della loro sostanza, della loro proprietà, del loro valore specifico e incomparabile. Esse galleggiano tutte con un medesimo peso specifico nel fiume di denaro che avanza, sono tutte sullo stesso piano, distinguendosi solo per le differenti porzioni di piano occupate». Parole scritte 120 anni fa, ma oggi più che allora meritevoli di riflessione anche da parte del mondo del no profit e della solidarietà sociale.

Foto Ansa

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