Scusi Mr.Bush, dov’è la festa?

Contro il terrorismo Bush sta sbagliando tutto. Per eccesso? No, per difetto di obbiettivi. Nell'“asse del male” dovrebbe esserci l'Arabia Saudita e gli Usa dovrebbero impegnarsi in un piano Marshall per i paesi arabi che collaborano alla lotta al terrorismo. Parole di un repubblicano ultraconservatore? No, di un'opinionista dell'ultraliberale New Repubblic, rivista della sinistra newyorkese. Un articolo (da discutere) scritto in esclusiva per Tempi di Michael Sean Winters

Il discorso di George W. Bush sullo “Stato dell’Unione” è stato un fallimento. Certo, i sondaggi continuano a segnalare un alto gradimento dell’opinione pubblica per il Presidente. Certo, l’opposizione del Partito Democratico è stata timida, quasi terrorizzata di parlar male di uomo il cui lavoro per il Paese viene apprezzato dall’80% dei cittadini. Certo, gli esperti dei media hanno giudicato il suo discorso “fiero” e “determinato” e ancora un milione di altri aggettivi adulatori. Tuttavia, ciò che nessuno vuole ammettere – quasi non fosse patriottico conservare un interrogativo – è che se il Presidente è stato chiaro circa i suoi obiettivi, non ha fornito invece alcun indizio sui mezzi per raggiungerli. Siamo in guerra con l’obiettivo di sconfiggere il terrorismo – ci è stato detto. Fine del discorso. Punto. È difficile capire quanto sia seria la Casa Bianca in merito alla lotta al terrorismo. Le parole sono fiere e violente, ma non si vedono segni concreti capaci di rassicurare che il Presidente abbia colto le enormi implicazioni di una simile impresa.

Un test sull’amministrazione Bush

Vorrei proporre tre test per verificare se l’amministrazione ha davvero intenzioni serie al riguardo. Prima di tutto, l’amministrazione deve dire chiaramente cosa verrà chiesto ai cittadini americani. Secondo, deve riconoscere che l’Arabia Saudita rappresenta un aspetto del problema del terrorismo, e non un fattore utile alla sua soluzione. Terzo, deve estendere in maniera significativa gli aiuti americani all’estero. Qui a Washington non sembra che ci sia una guerra in corso. Non c’è coprifuoco, i beni di prima necessità non vengono razionati né scarseggiano, non abbiamo assistito a una chiamata generale alle armi. Per quanto ne so, l’unica prova di un cambiamento nei costumi della gente è la necessità di arrivare prima all’aeroporto e l’impossibilità di compiere visite guidate natalizie alla Casa Bianca. Le emittenti televisive mantengono ancora inviati in Afghanistan, ma la notizia principale ha la stessa probabilità di avere per oggetto un fatto di cronaca nera locale quanto i misfatti di un lontano regime omicida. Capisco che siano in corso operazioni clandestine. Smascherare un’operazione di riciclaggio di denaro sporco non vale di per sé un’affascinante copertura televisiva, nonostante potrebbe essere proprio questo il passo più importante da compiere, nel breve termine. Ma, nel suo discorso, il Presidente non ha preso di mira soltanto i terroristi: anche alcuni stati, come l’Iran, l’Irak e la Corea del Nord, i cui regimi non saranno certo rovesciati con operazioni coperte. Ad oggi, la richiesta più grave che Bush ha fatto al Paese è stata quella di continuare a far compere per mantenere l’economia in movimento. Il Presidente non è mai stato onesto sul finanziamento di questa guerra. Naturalmente il partito di Bush non è molto dotato quando si occupa di problemi finanziari. I Repubblicani considerano come un mito Ronald Reagan, un presidente che nel corso degli anni ‘80 ha quadruplicato il debito del governo. Mi domando se qualcuno sia mai stato testimone di un contegno politico più sfacciatamente ipocrita di quello di quest’amministrazione repubblicana che ha consigliato agli argentini e ai giapponesi di ridurre il proprio debito pubblico. La “normalità” che Bush desidera può forse imprimere una spinta all’economia, ma la sua conseguenza perversa potrebbe essere quella di rendere gli americani impreparati ad un eventuale nuovo attacco terroristico. E con “preparato” non intendo fisicamente preparato. I cittadini possono fare poco da questo punto di vista. Piuttosto, psicologicamente: la guerra impone che una democrazia non rimanga nel suo atteggiamento mentale normale. Perciò è probabile che questo bisogno di normalità si trasformerà in boomerang contro l’amministrazione se i terroristi dovessero colpire l’America un’altra volta. Tuttavia c’è un pericolo più grande. Ed è che la Casa Bianca non ha spinto la logica delle sue stesse affermazioni fino alle estreme conseguenze. Se siamo davvero – come ha ripetuto il Presidente settimana passata – in una “guerra per la civilizzazione” allora in cosa consisterà la vittoria? 160 anni fa, Alexis De Toqueville sottolineò l’importanza che una democrazia dichiari con chiarezza gli obiettivi di una guerra, se vuole portarla avanti con successo.

Il Presidente Bush è stato chiaro nell’individuare il nemico, quando ha parlato al Congresso in settembre: “tutte le organizzazioni terroristiche mondiali e chi le sostiene”. Si tratta di un programma ambizioso, e ancora più dopo l’inserimento tra gli obiettivi da colpire degli stati che stanno dotandosi di armi di distruzione di massa. Oltre all’Afghanistan, cosa significa concretamente? La Casa Bianca non ha fatto distinzioni tra la Corea del Nord, che non appoggia i terroristi ma costruisce armi di distruzione di massa, e Hamas, che non possiede armi di distruzione di massa ma è certamente un’organizzazione terroristica.

Come ha scritto Michael Kinsley sul Washington Post includere la Corea del Nord fra gli obiettivi della lotta al terrorismo «è come dire che si vuole impedire ai pedofili di svaligiare le banche». Sono cose entrambe cattive, ma non esattamente la medesima cosa.

I sauditi sono moderati?

L’amministrazione ha dimostrato di non essersi dotata di quei nuovi paradigmi necessari per rivedere le vecchie posizioni strategiche e diplomatiche, per non parlare delle vecchie alleanze militari. L’amministrazione Bush può anche rifiutarsi di ammetterlo ma, se si muoverà per colpire l’Irak o la Somalia, oppure se deciderà di restringere le attività militari alle sole operazioni d’intelligence, non intraprenderà mai una guerra seria contro il terrorismo finché non riconoscerà che la Casa dei Saud è parte in causa nel conflitto. Per anni l’Arabia Saudita è stata considerata come uno dei regimi arabi “moderati”. Ma è proprio vero? I sauditi sono moderati? Il regime saudita non soltanto ha consegnato il proprio sistema educativo ai mullah più radicali, ma continua ad esportare una versione fondamentalista dell’islam per rafforzare la propria legittimità di “guardiano dei luoghi santi”, cioè per salvaguardare il proprio potere. I sauditi hanno fondato scuole islamiste in tutto il mondo musulmano, 9mila soltanto in Pakistan. Il governo saudita si è rifiutato di arrestare i terroristi, ma anche semplicemente di collaborare alle indagini contro di loro, segnatamente dopo l’attacco all’Uss Cole. Recentemente l’Arabia Saudita ha fatto decapitare tre suoi cittadini colpevoli di essere gay. La politica interna improntata alla repressione genera ogni anno una messe fresca di terroristi in pectore. I sauditi hanno chiesto addirittura che l’ambasciatore Usa nel proprio paese non parli arabo – perché? Cosa vogliono nascondere? I responsabili della politica estera americana dove ravvisano la moderazione saudita? Forse nei loro assegni paga. Alcuni recenti articoli, pubblicati su magazine autorevoli come il New Yorker, descrivono i legami finanziari tra i sauditi e il gruppo Carlyle – il quale ha trovato un ottimo collettore per infilare milioni di dollari nelle tasche dell’establishment repubblicano che segue la politica estera. Il primo e più ovvio arruolato del Carlyle Group è lo stesso Bush padre, il cui ruolo di consigliere politico del figlio non è chiaro. Così il legame fra il presidente del consiglio d’amministrazione del Carlyle Group, Frank Carlucci, e il suo vecchio compagno di college Donald Rumsfeld, oggi segretario alla Difesa, ha avuto a quanto pare risultati concreti nell’approvvigionamento di armi. La connessione tra i petrolieri texani amici del Presidente e i propri partner sauditi crea un’altra fonte di incentivi economici perché i consiglieri di Bush siano spinti a rassicurare il Presidente quando l’oggetto del discorso cade sull’Arabia Saudita. Poiché s’impara in fretta a stare al mondo, alcuni manager e dirigenti di compagnie petrolifere texane potrebbero non essere sempre scrupolosi nel campo della propria vita morale.

Giacimenti, non nazioni

L’Occidente dev’essere onesto sul Medio Oriente. Quando i britannici hanno abbandonato il Medio Oriente hanno lasciato un gran pasticcio alle loro spalle. I paesi della penisola arabica non sono “nazioni” nel senso in cui lo sono la Francia o l’Egitto. Il Kuwait, l’Arabia Saudita, Abu Dabi rappresentano giacimenti di petrolio con una bandiera, non nazioni. Cos’è la Giordania? È un premio di consolazione per gli hashemiti che hanno perduto a vantaggio dei sauditi il controllo dei luoghi santi islamici. Non esiste un’identità giordana: la popolazione è composta per il 90% da palestinesi e per il 10% da beduini. Forse è venuto il momento di riconoscere che è la Giordania il vero stato palestinese: date il Paese ad Arafat e restituite i luoghi santi agli hashemiti. Si tratta di una fantasiosa utopia, naturalmente. Eppure, nel 1986 chi l’avrebbe detto che nel giro di 5 anni l’Urss avrebbe cessato di esistere? Un ultimo test per mettere alla prova l’amministrazione Bush sta già dando cattivi voti. La ricostruzione dell’Afghanistan e la riconsiderazione dell’entità e del ruolo degli aiuti esteri. Alla Casa Bianca piace dire che gli Stati Uniti si sono occupati delle operazioni militari, ora l’Occidente può assumere la guida della ricostruzione e degli sforzi per il mantenimento della pace. Ma è una pazzia. Gli Usa dovrebbero ricostruire quanto è stato inevitabilmente distrutto dalla loro breve ma violenta guerra in Afghanistan. Questa guerra è stata certamente popolare fra la gente afghana ma, mentre l’euforia per la caduta dei burqa e la rasatura delle barbe comincia a scemare, e comincia a presentarsi la realtà della mancanza di acqua corrente, gli aiuti americani a questo paese sarebbero un piccolo prezzo da pagare per evitare che si ripeta il ritorno ad una caotica età feudale.

Ci vuole un piano Marshall

Creare una moderna società araba è un’impresa scoraggiante. A titolo di esempio, l’arretratezza socio-economica dell’Egitto è impressionante da un certo punto di vista, ma si può dire sia peggiore di quella del Giappone o della Germania nel 1945? Finché non ci saranno società arabe capaci di offrire opportunità di crescita reali per i propri cittadini il richiamo di chi promette altre opportunità mondiali è destinato a durare. Se gli Stati Uniti affrontassero il problema, entro 5 anni l’Afghanistan avrebbe acqua corrente ed energia elettrica in ogni casa dei suoi abitanti, strade di collegamento tra tutti i centri abitati, scuole in ogni villaggio e il mondo musulmano vi presterebbe attenzione. Non ci sono buone ragioni per non disporre un piano Marshall per ogni paese arabo disposto a combattere il terrorismo e abbracciare i valori cardine dell’occidente, come elezioni libere e rispetto per le donne. Ciò si scontra con il neo-isolazionismo del candidato alla presidenza George W. Bush, ma anche con il Bush prima dell’11 settembre, ma le macerie del World Trade Center chiedono questo cambiamento.

Il presidente Bush, ovviamente, non è il solo ad avere in mano il ruolino di marcia in base al quale procede questa “guerra”. Un altro aeroplano che si tuffa in un altro grattacielo e qualsiasi scommessa salta. Ma, così come stanno oggi le cose, sraà difficile prender sul serio il governo fino a quando un suo funzionario qualsiasi dirà che gli Stati Uniti stanno riconsiderando i propri rapporti con i sauditi, che al nostro Paese verrà chiesto qualcosa di più dello shopping e che gli aiuti statunitensi all’estero raddoppieranno o triplicheranno negli anni a venire. Né io mi farei avanti per quel nuovo spazio uso ufficio in Tour Montparnasse.

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