Santa Rita, Brega Massone. L’orrore che non c’era

Controinchiesta su un caso che fu dipinto con tinte horror dalla nostra stampa e tv. Alcuni ragionevoli dubbi su carte, perizie e soldi che ci portarono a dipingere il chirurgo Brega Massone come un sadico killer in camice bianco

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Clinica degli orrori. Bisturi assassini. I pirati della sanità. Una strage. Decine di morti. Pazienti torturati. Macelleria. Vivisezione. Horror movie. Sala operatoria a cottimo. Mutilava le donne. Tagliare via seni con noncuranza, come si tira un pezzo di polmone a un gatto». E ancora: «Dottor Morte. Mai più chirurghi come lui. Il primario degli orrori. L’odore dell’odio». Queste sono solo alcune delle espressioni virgolettate o dei titoli apparsi sui giornali per raccontare la vicenda della clinica Santa Rita di Milano e del suo primario di chirurgia toracica Pier Paolo Brega Massone, primo medico in Italia, e probabilmente al mondo, ad essere condannato all’ergastolo nell’esercizio delle sue funzioni. Eppure il 22 giugno la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza sancendo che il chirurgo dovrà essere giudicato da un nuovo collegio di Corte d’Assise d’Appello a Milano, non più con l’accusa di omicidio volontario. Una decisione strabiliante, sia perché la Suprema Corte ha ribaltato la condanna all’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti dell’aprile 2014 e la sua conferma in appello nel dicembre 2015, sia perché, per la prima volta, la figura di Brega Massone non è stata associata a quella del sadico killer. “Il Dottor Morte della clinica degli orrori”, insomma, non lo era.

In attesa di conoscere le motivazioni, qualche considerazione può essere avanzata, non fosse altro per la mastodontica sproporzione con cui il pronunciamento della Cassazione è stato accolto sui nostri giornali – rapidamente relegato nelle notizie di cronaca – a fronte invece della lunga e martellante campagna mediatica con cui il caso fu trattato anni fa, quando faceva da titolo d’apertura a quotidiani, settimanali e tg serali. Fino ad oggi, infatti, a proposito della “clinica degli orrori” ci è stata raccontata una storia senza sfumature, graniticamente monolitica nella sua narrazione, senza alcuna sbavatura non diremo innocentista, ma nemmeno garantista. Se si escludono alcuni articoli apparsi su La provincia pavese e un editoriale pubblicato il 24 giugno 2008 sul Corriere della Sera a firma di Pierluigi Battista (“L’istinto di colpevolezza”) non esiste all’interno del panorama mediatico italiano alcuna voce che abbia osato discostarsi dal grandguignolesco canovaccio dell’horror movie.

O meglio, una voce c’è e c’è stata, e qui le si vuole rendere tributo se non altro come esempio di giornalismo d’inchiesta fattuale e non teorematico, basato su prove e carte e non su opinioni, preoccupato di documentare ogni propria affermazione prima di sottoporla al pubblico giudizio. Certo, con una chiave interpretativa precisa che può essere sempre discussa, ma che certamente ha il merito di motivare ogni propria asserzione senza ricorrere all’ipse dixit o all’emotività. Si tratta di E se il mostro fosse innocente? di Giovanna Baer e Giovanna Cracco (edizioni Paginauno), controinchiesta pubblicata nel febbraio 2012 che – come è intuibile dal titolo – cercava di smontare le accuse rivolte a Brega e alla sue équipe. Dopo la pubblicazione del volume, Giovanna Cracco ha proseguito nella sua indagine pubblicando sul sito della rivista Paginauno quelle che lei definisce le sue “controcronache”, dettagliati resoconti delle udienze svolte in tribunale. Cracco, come forse solo gli avvocati e i magistrati del procedimento, può vantare di aver letto tutte le carte dell’accusa e della difesa, le 1.862 pagine di intercettazioni, tutti gli articoli dedicati alla vicenda. «Un lavoro enorme – spiega a Tempi – che ha richiesto tempo e studio. Un lavoro fortemente osteggiato, tanto che qui a Milano siamo riusciti ad organizzare una sola presentazione e solo grazie all’interessamento di Marco Cappato dei Radicali, e fuori città solo grazie all’appoggio dell’Ordine dei medici di Pavia, da sempre assai critico sulle sentenze del tribunale. Non abbiamo mai ricevuto richieste di smentite né querele, tutto ciò che scriviamo è motivato con documenti che sono riportati nel volume o online. È tutto alla luce del sole. Non ci sono gole profonde, non ci sono fonti riservate, è tutto e solo negli atti pubblici. Se non vi fidate di noi, leggeteli e fatevi un’opinione».

Il punto attorno cui ruota tutto il ragionamento di Baer e Cracco è che vi sia un ragionevole dubbio a proposito della colpevolezza del chirurgo e degli altri condannati. Per questo è necessario raccontare la vicenda pur per sommi capi, ma a partire da un aspetto su cui la stampa non si è mai per nulla concentrata, eppure fondamentale: un’indagine della commissione Asl su tredici episodi di tubercolosi segnalati in 18 mesi, a partire dal gennaio 2006, alla clinica Santa Rita. A partire da questa indagine e da una segnalazione anonima giunta in procura su un’ipotetica truffa alla Santa Rita ai danni del Sistema sanitario nazionale a proposito dei rimborsi regionali, furono predisposti il sequestro delle cartelle cliniche (inizialmente, non quelle dell’unità toracica dove operava Brega) e le intercettazioni. In base a questo materiale è stato dato il via al processo che poi si è ramificato in due filoni. Nel primo, si è arrivati a sentenza definitiva e Brega è stato condannato a 15 anni e mezzo di carcere per truffa, falso e per una ottantina di casi di lesioni dolose. Il secondo, quello che ha portato all’ergastolo con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti e di lesioni dolose per una quarantina di persone, è quello su cui la Cassazione s’è pronunciata di recente.

Eterna carcerazione preventiva
Nel mezzo della vicenda, Brega è stato licenziato dalla Santa Rita e il suo ricorso al Tar per dimostrare la propria estraneità al “contagio da Tbc” non è mai stato discusso nell’udienza fissata per il 19 giugno 2008. Dieci giorni prima, il 9 giugno 2008, fu arrestato con altre quattordici persone: dodici finirono ai domiciliari, Brega e il suo primo aiuto, Fabio Presicci, al carcere di San Vittore. Il Riesame fece cadere l’accusa di omicidio – che poi è tornata in piedi – ma confermò le ipotesi di lesioni dolose e Brega rimase in custodia cautelare – a parte una parentesi di sei mesi – per cinque anni, un’eternità. Comunque la si pensi, risulta difficile non condividere l’osservazione di Cracco e Baer nel denunciare il ricorso alla carcerazione preventiva come fortemente limitante la libertà dell’imputato che, dalla piccola cella di San Vittore, faticava enormemente a organizzare la propria difesa. Oltretutto, le tre condizioni che per legge ne avrebbero motivato la custodia non parevano sottostare. Quando essa fu predisposta, Brega non poteva inquinare le prove perché già ampiamente acquisite; non poteva reiterare il reato perché, non possedendo una sala operatoria, non poteva effettuare operazioni; aveva dimostrato di non volere fuggire, non avendo mai approfittato, nemmeno nei mesi di libertà, di una tale possibilità. A Brega non furono mai concessi gli arresti domiciliari.

Pier Paolo Brega Massone si è sempre dichiarato innocente. Lo ha fatto dal primo giorno in cui gli sono state mosse le accuse, lo ha ripetuto il giorno in cui è stato condannato all’ergastolo, lo dice oggi: «Non ero un serial killer. La mia priorità è sempre stata quella di dare ai pazienti la sicurezza. Ho sempre agito in scienza e coscienza». A scanso di equivoci, è bene sottolineare che il lavoro di Baer e Cracco arriva a imputare al medico una truffa – ma non delle proporzioni per le quali è stato condannato –, ma a criticare fortemente l’impianto accusatorio relativo all’accusa di lesioni dolose e di omicidio volontario. In particolare, secondo le due autrici, è provato che vi sia stato un raggiro in merito ai passaggi di reparto tra acuti e riabilitazione (una truffa amministrativa, che non riguardava la cura dei pazienti) e in merito alla codifica di alcune cartelle relative ai casi di senologia, ma anche in questo caso, si tratta di falso in cartella e non dell’intervento effettuato sulle pazienti.

Il linguaggio sconveniente
Quando la vicenda lo travolge, Brega è uno stimato chirurgo originario del Pavese che ha al suo attivo circa 1.400 interventi come primo operatore, ossia responsabile in sala operatoria, e 371 pubblicazioni scientifiche di cui 169 con primo nome. L’attenzione della procura si concentra su di lui a partire dalle intercettazioni, in cui, secondo l’accusa, si rintraccia il movente: il denaro. Oggi il sistema è cambiato, ma al tempo molte retribuzioni dei medici erano legate in percentuale (tra il 9 e l’11 per cento) al rimborsi dei drg (il sistema di calcolo della spesa attribuito a ogni diverso tipo di operazione) percepito dalla clinica. Poiché nessuno è mai riuscito a dimostrare che Brega fosse un sadico, l’aspetto economico è importante perché spiega, secondo le sentenze, il motivo per cui Brega era spinto a intervenire il più possibile, aumentando i propri guadagni. In effetti, i medici della Santa Rita, compreso Brega, al telefono discutevano animatamente di soldi in relazione agli interventi, ma, contestano Baer e Cracco, parlarne non significava ammettere che si operava “solo e soltanto” con questo fine, negando quello medico.
Il linguaggio utilizzato – e che ovviamente in quei mesi finì su tutti i giornali sapientemente enfatizzato – poteva essere considerato riprovevole moralmente, persino scandaloso, ma non costituiva reato. Poteva indurci a pensare che Brega fosse uno sbruffone pieno di sé, ma questo, se non suffragato da prove, non faceva di lui un criminale seriale.

Mille euro in più al mese
Si tratta poi di dettagliare a quanto effettivamente ammontasse la truffa. In quel periodo sui quotidiani si potevano leggere cifre da capogiro («2,5 milioni») che, però, per quanto riguarda Brega e la sua équipe, erano molto più contenute. A quel tempo, alla Santa Rita così come in molti altri enti lombardi il rapporto tra chirurgo e clinica era strutturato in due parti: sui ricoveri, come detto, al medico spettava il 9 per cento dell’importo dei drg rimborsati dalla Regione; per le degenze in riabilitazione il medico percepiva 10,33 euro per ogni giorno di ricovero del paziente. Fatto salvo quanto già scritto, e cioè che una truffa ci fu nei passaggi da un reparto all’altro, occorre anche andare a fare i conti in tasca a Brega. Secondo quanto calcolato da Baer e Cracco, sulla base di una consulenza tecnica depositata al primo processo, l’équipe dei tre medici – era infatti Brega, con il 9 per cento percepito, a pagare i due aiuti – avrebbe intascato 25.000 euro al lordo delle imposte nel 2005, 39.000 euro nel 2006, 25.000 euro nel 2007. Nella sostanza, le loro cifre non si discostano da quelle che lo stesso Brega ha rivelato ad Annalisa Chirico che lo intervistò per Panorama il 17 luglio 2014 mentre si trovava in carcere, e che si riferivano ai casi contestati in entrambi i processi: «Il pm – disse il dottore – sostiene che, “checché ne dica il mio commercialista”, io avrei incassato 300 mila euro sulla base del fatto che la clinica aveva avuto 3 milioni. Il 9 per cento è pari a 270 mila lordi, da dividere fra i tre componenti dell’équipe. Al netto delle tasse, l’importo percepito da noi tre era di 151 mila euro. Poniamo pure che io in qualità di primario ne prendessi il 65 per cento: la mia retribuzione sarebbe stata di 98 mila euro. Quindi, secondo l’accusa, per guadagnare 1.000 euro in più al mese io avrei deliberatamente rischiato quanto mi è successo. Non è un caso che nelle fasi finali del processo lo stesso pm abbia precisato di non aver quantificato il lucro sostenendo che io avrei effettuato gli interventi più “per megalomania” che per trarne profitto».

Il tasto su cui Baer e Cracco battono maggiormente riguarda le perizie dei consulenti dell’accusa e della difesa così come furono presentate nel corso del primo processo. La materia è complessa: stiamo parlando di chirurgia toracica, un campo della medicina ad alta specializzazione ed, inevitabilmente, le parole degli esperti sono fondamentali per formare nei giudici una corretta interpretazione dei fatti. Baer e Cracco insistono sul fatto che il profilo professionale del «grande accusatore» di Brega fosse inadeguato. Si trattava di un dottore con un passato in chirurgia generale, che da dieci anni non entrava in sala operatoria e che, al momento della perizia, svolgeva l’attività di medico di base. Nel suo curriculum non figuravano competenze nel campo della chirurgia toracica né in quello della medicina legale. Fu l’unico dei periti dell’accusa a visionare tutte le 575 cartelle sequestrate e a segnalare ai pm i casi clinici da contestare. Gli altri periti dell’accusa – tutti medici dal curriculum adeguato al compito – basarono i propri pareri a partire dalla sua scrematura delle cartelle cliniche. Il punto, fanno notare Baer e Cracco, è che nessuno di loro visionò le lastre (tac, rx, etc) e la documentazione medica completa, ma solo i referti del radiologo. Inoltre, le valutazioni dei periti dell’accusa furono generalmente molto stringate e poco, a parte un caso, attente a motivare le proprie affermazioni basandosi sulla letteratura scientifica. Nel caso del primo e più importante perito, poi, per i casi relativi alle patologie toraciche non vi sono indicazioni in letteratura, protocolli ospedalieri o linee guida atte a motivare le proprie opinioni.

Chi ha ragione?
Al contrario, i periti della difesa, oltre a poter vantare curriculum adeguati e di fama internazionale, forti del fatto di aver visionato tutto il materiale, immagini comprese, giunsero a conclusioni diametralmente opposte. Tuttavia non fu loro sempre consentito proiettare le lastre in udienza, fatto che avrebbe aiutato a comprendere meglio le decisioni prese da Brega e dalla sua équipe in determinate situazioni – anche perché, davanti ad alcune immagini, si è riscontrato in aula l’inesattezza di quanto scritto nel referto. Le consulenze degli specialisti della difesa, inoltre, risultarono molto lunghe e articolate (una supera le 500 pagine), riportando in calce riferimenti a una letteratura scientifica ricca e dettagliata a sostegno delle proprie valutazioni.
L’osservatore distaccato potrebbe, a questo punto, conservare ancora qualche perplessità. Chi aveva ragione? Fu anche per questo che gli avvocati di Brega chiesero più volte che fosse disposta una perizia super partes. Il tribunale rifiutò sempre, arrivando a definire, nella sentenza di primo grado, il lavoro dei consulenti della difesa come «infarcito di imprecisioni, omissioni e contraddizioni».

Fu in base alla prima sentenza di condanna che una delle vittime, la signora D.P., cinquant’anni, sovrappeso, forte fumatrice, intentò una causa in sede civile contro Brega. Il giudice del nuovo procedimento decise di nominare periti super partes che analizzarono tutta la documentazione medica, le lastre, lo stato di salute della signora dopo l’intervento di Brega. Le conclusioni cui giunsero tali specialisti, in aperto contrasto con quelle del primo processo in cui la donna era risultata vittima, furono che le terapie che le erano state prestate erano «perfettamente appropriate» e che l’intervento cui era stata sottoposta era stato «eseguito a regola d’arte». Oltre al caso D.P., nella vicenda Brega Massone-Santa Rita esiste un altro caso in cui altri specialisti super partes sono stati chiamati ad esprimersi e, anche in questo secondo, le conclusioni sono favorevoli al chirurgo. La domanda di Baer e Cracco è inevitabile: quanti altri casi D.P. esistono? Perché il tribunale non ha voluto disporre una perizia super partes? E perché, anche di fronte a tali pareri, ha comunque condannato Brega? Il dubbio che altri expertise avrebbero dimostrato il buon operato di Brega è lecito e ragionevole.

Legge bavaglio
In tutta questa vicenda un ruolo essenziale lo hanno giocato stampa e tv. L’11 giugno 2008, due giorni dopo i primi arresti, la Santa Rita era già diventata sui quotidiani la «clinica degli orrori» e Brega «il mostro». È la solita storia: sono note solo le ipotesi investigative, ma raramente parole come «presunto» o «sospettato» appaiono accanto ai nomi degli accusati. I termini complessi della chirurgia toracica furono espunti dalle cronache e dai servizi dei tg, dando rilievo solo alle posizioni della procura. Tra l’altro, in quel periodo, in Italia si stava discutendo il ddl Alfano che avrebbe voluto limitare l’abuso e la diffusione delle intercettazioni.

Il caso Santa Rita divenne uno dei cavalli di battaglia dei detrattori della “legge bavaglio”. L’11 giugno 2008 una puntata di Matrix condotta da Enrico Mentana e intitolata “La clinica degli orrori” mandò in onda l’audio di alcune intercettazioni dando adito all’ospite Marco Travaglio di affermare che, senza quelle, «non si sarebbe potuto scoprire che questi [medici] non solo facevano i falsi delle cartelle cliniche ma ammazzavano la gente». Oggi, dopo la sentenza della Cassazione, un finale molto diverso di questa vicenda potrebbe essere scritto (il condizionale è d’obbligo), ma nessun quotidiano o tv sembra più interessato a occuparsi del “mostro” della “clinica degli orrori”. La storia non fa vendere più. E questa è una mesta certezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Foto Ansa

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