Sanificazione o santificazione?

Girano idee stravaganti su come ricominciare a fare le messe con "ostia take away" e sacchettini.

Finora non ci avevo fatto caso, ma in effetti è piuttosto singolare (e forse non casuale) che “sanificazione”, questa categoria prima riservata ad un ristretto cenacolo di esperti e ora prepotentemente entrata nelle nostre vite risuonando come un mantra ogni due per tre, sia pressoché uguale a “santificazione”. È solo questione di una lettera, una semplice “t”, che però pone una distanza siderale tra i rispettivi significati.

Prevengo l’obiezione: embè? È solo un esempio come tanti di somiglianza lessicale, dov’è il problema? Il problema è che in questi tempi di pandemia che stiamo vivendo sembra che la prima sia diventata d’un tratto più importante della seconda. Un po’ come quando dopo i (ne)fasti risorgimentali la provvidenza venne pian piano soppiantata dalla previdenza (sociale). Il che, ripeto, un qualche problema lo pone eccome.

Si prenda ad esempio la questione delle messe. I fatti recenti li conosciamo e non c’è bisogno di tornarci. Sappiamo anche che è in corso un’interlocuzione per tentare di sbrogliare la matassa. Bon. Fatto sta che l’altro ieri mi capita di leggere sul quotidiano La Stampa (non esattamente un giornalino di quartiere) di una possibile soluzione cui starebbe lavorando il governo con l’ausilio degli immancabili esperti, per regolare l’accesso alla comunione sacramentale una volta che, bontà sua, il governo avrà concesso di poter tornare a celebrare le messe coram populo.

In particolare si starebbe pensando, cosa in vero piuttosto stravagante, alla self-comunione tramite ostia take away, ossia alla possibilità di mettere le ostie, precedentemente consacrate, in sacchettini di plastica che verrebbero impilati e messi a disposizione dei fedeli da qualche parte nelle chiese (e per le messe all’aperto? Si possono ordinare le ostie su Amazon poi ognuno se la porta da casa?). Questo, ovviamente, per evitare anche il minimo contatto tra sacerdote e fedeli all’atto della comunione, momento che a detta dei succitati esperti sarebbe ad altissimo rischio contagio.

Allora, vediamo se ho capito. Trascurando per un momento il non banale dettaglio che un così massiccio utilizzo di sacchetti di plastica immagino porrebbe un qualche problema di natura ambientale (e Dio solo sa quanto la Chiesa sia attenta alla salvaguardia dell’ambiente), posto che non è dato sapere come e dove verrebbero smaltiti i sacchetti (a meno di non concedere ai fedeli il privilegio di poterseli inghiottire seduta stante), la domanda che non mi fa dormire è la seguente: se io vado al supermercato e al banco dei salumi un addetto mi allunga due etti di bresaola, si può fare; se invece il sacerdote, anch’egli attrezzato con guanti e mascherina, pone ad esempio l’ostia nelle mani dei fedeli, anch’essi imbracati come sopra, in questo caso non va bene perché ci sarebbe una situazione di rischio maggiore?

Ora io capisco (ma fino a un certo punto) le cautele degli esperti; ma di fronte a cotanto sfoggio di logica, beh forse è il caso di correre in fretta ai ripari ricordando – e non ci stancheremo mai di ringraziare Vittorio Messori che ne ha fatto un suo cavallo di battaglia – che in ambito cattolico vige la legge dell’et-et, non dell’aut-aut tipica invece dei massimalisti e degli ideologi. Et-et: significa che santificazione e sanificazione possono tranquillamente convivere, senza per forza di cose ridurre accanirsi sulla prima riducendola ad un algido protocollo sanitario. 

Foto Ansa

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