Salvate la 194 dagli abortisti

«Non ho cambiato idea, ero e resto pro life. Ma la nostra è una legge dissuasiva, e va applicata fino in fondo. Dobbiamo lavorare perché un giorno non serva più»

Trent’anni e non sentirli: tanti ne ha la 194, ma ogni volta che se ne parla scatta un botta e risposta tanto prevedibile quanto sincero, e, spesso, profondamente inutile.
Il dibattito è rimasto fermo là, alla contrapposizione abortisti-antiabortisti, dove i primi sarebbero i sostenitori della legge, e i secondi quelli che la volevano abrogare, e hanno perso il referendum del 1981. Io sono fra quelli che hanno perso. Avevo quasi diciotto anni. Ho fatto una dura campagna, da militante, faticosa, per noi cattolici parlare in pubblico era difficilissimo, a volte pericoloso. Ero certa che l’aborto fosse un omicidio, e che la sua legalizzazione non avrebbe risolto il problema della clandestinità – sbandierata dai radicali con cifre inverosimili, talmente impossibili che molti di noi credevano sinceramente fosse tutto inventato di sana pianta – e che anzi ne avrebbe fatto un mezzo di controllo delle nascite, un tragico contraccettivo.
Dopo trent’anni non ho cambiato idea. Penso ancora esattamente così. Ma in trent’anni è cambiato il mondo: è crollato un muro a Berlino, è nata Louise Brown, e dopo di lei, come lei, tre milioni di bambini sono stati concepiti in laboratorio, un numero imprecisato di embrioni umani (quanti milioni?) è stato soppresso, perché in sovrappiù, venuti male, o sacrificati in nome della scienza. Insieme alla piccola Louise è arrivata la tecnoscienza.
Negli ultimi vent’anni nel mondo c’è stato un miliardo di aborti. Una cifra agghiacciante. E proprio per la battaglia di trent’anni fa – che rifarei – e per tutto l’impegno pubblico e privato di questi trent’anni nel fronte pro life, dico che è ora di mettere un punto e voltare pagina. E per questo condivido la difesa che ha fatto la dottoressa Patrizia Vergani della legge 194, in un’intervista pubblicata su Tempi, per la quale è stata ingiustamente attaccata. Una legge sull’aborto è necessaria: prima le donne che abortivano erano processate e andavano in galera. Solo loro, s’intende. Non i maschi che le avevano messe incinte. Non si può mandare in galera una donna che ha abortito. E se qualcuno fosse ancora convinto del contrario, sia coerente e ammetta che in galera ci deve andare anche il padre del concepito, se è stato favorevole, o se comunque ha collaborato in qualche modo all’aborto, anche con l’indifferenza (decidi tu, dicono. E se ne fregano, neanche accompagnano in ospedale, e poi ti sbattono in faccia la scusa della tua libertà. Ma quando mai?). Adesso si può fare, c’è l’analisi del Dna, Pater semper certus est, tamquam mater.
Certo, se la potessi scrivere io, una legge sull’aborto, direi che è consentito solo nei casi di grave pericolo di salute e di vita della madre. Ma la 194 non l’ho potuta scrivere io, né chi la pensa come me. È il frutto di un compromesso, come avviene spesso in politica, è stata votata ad un referendum, ed è chiaramente condivisa dalla maggior parte del popolo italiano. Come dice tale Camillo Ruini – difficilmente tacciabile di relativismo o tantomeno di essere una banderuola, su certi temi – «noi certamente siamo contro l’aborto ma non vogliamo modificare la legge. Auspicheremmo soltanto che nell’applicazione della legge si tenga conto il più possibile dell’importanza di favorire la vita».
La legge ha fatto mentalità, ma per cambiarla non si può partire da una nuova legge: bisogna ricominciare a parlare dell’esperienza del materno, di cosa significa essere madre. Bisogna recuperare il senso delle relazioni umane, e dire, come Paola Bonzi del Centro di Aiuto alla Vita della Mangiagalli di Milano, che una donna per accogliere deve essere accolta.

Giù dalle barricate
Nel frattempo è successo qualcosa di cui noi cattolici dobbiamo essere consapevoli: il fronte “abortista” è spaccato. Ci sono gli abortisti veri e propri e i pro choice. Gli abortisti sono quelli per i quali l’aborto è un problema solo a parole, ma poi nei fatti se ne fregano, per esempio vogliono la pillola Ru486 perché così le donne potranno abortire a casa col fai-da-te, e l’embrione e il sangue vanno via con una tirata dello sciacquone, al cesso, senza problemi.
I pro choice, invece, sono quelli che sostengono la 194, ma vorrebbero che le donne non abortissero più. E per questo apprezzano il lavoro dei centri di aiuto alla vita, e ci mandano le donne in difficoltà, li sostengono come possono e a volte ne favoriscono la presenza dentro gli ospedali. Il mio nemico non sono le donne che abortiscono, né la legge. Il mio nemico è l’aborto, e chiunque insieme a me vuole lavorare per diminuirne il più possibile il numero è mio alleato, e il fatto che sostenga o no la legge non mi interessa. Giudico sui fatti concreti. Quante donne hai aiutato perché non abortissero? Di quante ti sei fatto carico? E questo lo chiedo a tutti, cattolici e laici.
La legge 194, pur nelle sue molte ambiguità ed ipocrisie, se correttamente applicata ci permette di avere come alleati contro l’aborto tanti fra quelli che la legge l’hanno voluta. Sì, perché nel suo genere, la 194 è una buona legge, una delle migliori sull’aborto nel mondo. È una legge che vede l’aborto come un fatto negativo, verso il quale assumere un atteggiamento dissuasivo, e comunque da tenere sotto stretto controllo. L’aborto non è un diritto, per la 194, e infatti nel testo non si parla mai di autodeterminazione della donna.
Inizia con la difesa della vita: sana e utile ipocrisia, unica legge italiana che difende espressamente la vita, e, si sa, scripta manent. Non permette che i privati facciano dell’aborto un mezzo di profitto, ed è per questo che solo in Italia non si sono annidate quelle potenti ong (come la Planned Parenthood) che nel resto del mondo – in tutto il mondo – prosperano con le loro cliniche per aborti e contraccezione. Sia detto chiaramente: questo è uno dei principali motivi per cui in Italia gli aborti non sono aumentati, ma un po’ diminuiti – meno di quanto si vuole far credere, e sempre troppi. La legge 194 non è eugenetica, non permette la soppressione del feto in quanto malformato, ma solo se questo provoca gravi problemi alla madre.

La prevenzione che manca
Per la 194 gli aborti tardivi (non si parla mai di aborto terapeutico) sono proibiti se il feto ha possibilità (non probabilità) di vita autonoma: se la donna rischia la vita (non la salute) le si induce il parto e si cerca di salvare entrambi.  C’è una parte consistente sulla prevenzione, tutta da applicare. Se poi la legge è sistematicamente violata o male applicata, tocca a noi combattere per farla rispettare.
E poi: due anni fa abbiamo fortissimamente difeso la legge 40, che dal punto di vista dell’abortività è molto peggio della 194: per ogni bimbo che nasce da un concepimento in vitro, nove embrioni muoiono, in laboratorio o abortiti. Eppure quella passa per una legge cattolica (e sappiamo bene che di cattolico non c’è assolutamente niente). L’abbiamo voluta, perché era il male minore, il compromesso più ragionevole, e l’abbiamo difesa non andando a votare, seguendo il consiglio della Cei. Perché non utilizzare lo stesso criterio di giudizio per la 194? Insomma, che cosa mi tocca difendere, ma io la 194, oggi e in queste condizioni, non la voglio cambiare, la voglio applicare tutta quanta, e voglio vedere chi veramente è disposto, insieme a me, a lavorare perché un giorno non serva più. Senza stare ogni volta a rimestare cosa abbiamo votato trent’anni fa.
*membro del Comitato nazionale per la bioetica

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