Rubli e rupie

Non è durato molto l'effetto-rialzo dell'azione congiunta di Banca centrale europea (Bce), Federal Reserve americana (Fed) e Banca del Giappone sull'andamento valutario dell'euro, la moneta unica dell'Unione Europea (Ue

Non è durato molto l’effetto-rialzo dell’azione congiunta di Banca centrale europea (Bce), Federal Reserve americana (Fed) e Banca del Giappone sull’andamento valutario dell’euro, la moneta unica dell’Unione Europea (Ue): la massiccia immissione di yen sul mercato mondiale da parte dei tre istituti ha per poco fatto impennare la valutazione dell’euro dagli 85 centesimi di dollaro del 21 settembre ai 90 del giorno dopo, ma lunedì 25 la moneta aveva già ripreso la sua lenta discesa. La verità è che i numeri sono impietosi: nei primi 21 mesi della sua per ora virtuale esistenza l’euro ha perduto circa il 30% del suo valore nei confronti del dollaro; nei soli ultimi dodici mesi la perdita è stata, come mostra la tabella sottostante, del 24,21%. Nessuna valuta dei paesi a economia avanzata ha fatto peggio, mentre fra quelle dei paesi emergenti solo la lira turca e (di poco) il fiorino ungherese hanno perso di più. Ma persino le monete di paesi cronicamente in crisi dal punto di vista politico e/o assediati da difficoltà economiche come l’Indonesia, la Russia o il Venezuela hanno fatto molto meglio. Per non parlare di valute stabili o in via di apprezzamento sul dollaro come quelle di Cina, Messico, Corea del Sud e Brasile. La domanda che tutti si fanno è: ma perché l’euro continua a sprofondare benché Duisenberg (il presidente della Bce) e altri continuino a ripetere che è sottovalutato? Colpa del prezzo del petrolio? Della flessione della fiducia degli imprenditori nell’economia tedesca? Della revisione al ribasso da parte del Fmi del tasso di crescita dell’economia italiana? Del minacciato “no” danese all’euro? Anche, ma i veri problemi sono più profondi, e il principale di tutti resta il differenziale fra la crescita degli Usa e quella della Ue: anche in un’annata positiva per l’economia europea come, nonostante il boom dei prezzi petroliferi, resta quella del 2000, il pil dell’area dell’euro crescerà al massimo (petrolio permettendo) del 3,5%, mentre quello Usa è destinato a sfondare il 5%. L’economia Usa continua a restare più attraente di quella europea per gli investitori internazionali per la flessibilità del suo mercato del lavoro, il minor costo della manodopera, la minore tassazione sugli utili, i tassi di interesse più bassi, i tempi più ridotti per le autorizzazioni, ecc. Tutte questioni che non si risolvono a livello di banche centrali o di accordi fra produttori e consumatori di petrolio.

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