Rompicapo egiziano

Potenza finanziaria wahabita, nuovi predicatori, islamisti moderati: l’islamizzazione della società egiziana ha molte sfaccettature, ma tutte confermano una preoccupazione: l’ascesa al potere degli islamisti aprirebbe scenari inquietanti. Seconda parte di un reportage alle radici del fondamentalismo islamico

Riassumiamo per chi si è perso la prima puntata. Wael Farouq, ex militante del fondamentalismo islamico, spiega che l’ascesa degli islamisti in Egitto ha profonde motivazioni psicologiche legate alla crisi morale che pervade la società: per tutelare la propria rispettabilità (valore cardine nelle società arabe) e recuperare autostima gli egiziani bilanciano i loro peccati privati con l’ostentazione di una religiosità tutta esteriore e sovraccaricata di gesti politici, che è esattamente quella messa a punto dai Fratelli Musulmani (Fm) e da tutti i loro epigoni. Padre Christiaan Van Nispen, gesuita testimone di 40 anni di storia egiziana, sottolinea i fattori socio-culturali del processo di islamizzazione, connessi alla crisi identitaria di una popolazione emigrata in massa dalla campagna alla città: il velo, l’ostentazione religiosa e la militanza islamista permettono alle donne di giustificare sulla base del paradigma tradizionale, di fronte ai loro mariti e fratelli e di fronte a se stesse, comportamenti quali la mobilità femminile senza accompagnamento parentale in città, la frequenza scolastica da parte delle ragazze, ecc., che altrimenti costituirebbero una rottura culturale destabilizzante. Entrambe le spiegazioni evidenziano il carattere schizofrenico della società egiziana e la natura opportunistica e strumentalizzatrice dell’islamismo.

La svolta della disfatta del 1967
Per gustare appieno queste ed altre analisi, bisogna inquadrarle nella narrazione storica dell’ascesa del fondamentalismo islamico, un racconto estremamente istruttivo. «Dopo la sconfitta nella guerra del 1967 con Israele – spiega Wael – molti egiziani hanno pensato che eravamo stati puniti da Dio perché il nostro presidente era un miscredente. Nasser non era ateo e pregava regolarmente, ma l’incarcerazione e la condanna a morte di molti Fm per ordine suo, l’alleanza di fatto coi comunisti sovietici e la preminenza del panarabismo rispetto al panislamismo nella sua azione politica lo facevano giudicare un nemico della religione. A causa della disfatta militare e di errori di politica economica, l’economia è entrata in una crisi profonda, e molti allora sono emigrati verso i paesi del Golfo e l’Irak. Per la prima volta nella storia millenaria dell’Egitto c’è stata un’emigrazione di massa: 3 milioni di persone hanno lasciato il paese. Vent’anni dopo molti di loro sono tornati indietro arricchiti grazie ai petrodollari, ma con un modo più povero di pensare l’islam. Dall’Arabia Saudita hanno importato soldi e teorie wahabite, e con la forza economica acquisita hanno forzato la società a seguirli. Tutte le stupide idee religiose che oggi vanno di moda sono arrivate con loro, mentre l’arte e il pensiero hanno avuto un tracollo. Il cinema egiziano è morto, i nostri scrittori hanno fatto la stessa fine o ci sono andati vicino (allusione al destino di Farag Fouda e Naguib Mahfouz, vittime di attentati estremisti, ndr)».
Ashraf, giovane simpatizzante comunista, concorda con la ricostruzione storica di cui sopra, ma l’arricchisce con la chiave di lettura dell’economia politica: «Giustissimo quel che si dice degli emigrati di ritorno dai paesi del Golfo: non hanno riportato qui solo soldi. Molti di loro erano Fm in fuga dalle persecuzioni di Nasser e poi da quelle dell’ultimo Sadat: sono tornati più oltranzisti e fanatici che mai perché hanno combinato le dottrine dei Fm con il wahabismo saudita, l’incontro di due veleni! Ma non va dimenticata un’evoluzione interna al paese: i “mancati borghesi” della riforma agraria di Nasser sono diventati la base sociale del “fascismo islamico” iniziato dai Fm e radicalizzato da Sayyd Qutb. Improntata ai kolchoz sovietici, quella riforma non ha permesso ai braccianti di trasformarsi in piccoli proprietari, né ai vecchi latifondisti di trasformarsi in imprenditori dell’agro-industria. Delusi nelle loro attese, i primi sono rifluiti in città come sottoproletariato, i secondi come piccola borghesia frustrata. Per gli islamisti è stata una manna: hanno saputo intercettare la lealtà di questa gente che dalla campagna immigrava in città».

Fratelli Musulmani imitatori di don Bosco e di Cl
Ashraf, che conosce l’Italia, si lancia in paragoni suggestivi. «Il genio dei Fm, che ha permesso loro di avvicinare tanti giovani, è stato di imitare i “santi sociali” cattolici italiani. Hanno creato l’equivalente islamico dell’oratorio, hanno “salvato dalla strada” e raccolto attorno a sé i ragazzi spaesati che arrivavano in città offrendo non solo insegnamento religioso, ma momenti di ricreazione come gite, giochi collettivi, iniziative culturali. Poi hanno imitato quello che i Gruppi mariani e Comunione e liberazione fanno col Rosario e con la liturgia delle Ore: hanno creato momenti di preghiera e di lode comunitaria ad Allah e al Profeta distinti da quelli istituzionali, per creare un sentimento di appartenenza specifico, non genericamente musulmano, fra coloro che li seguivano. Hanno saputo offrire una socializzazione integrale ai nuovi gruppi urbani».
Un ruolo decisivo nella strategia dell’islamizzazione dal basso lo svolgono i finanziamenti di provenienza wahabita. «Nove milioni di cairoti su 17 – spiega Samir Marcos, un intellettuale cristiano copto autore di ricerche sui diritti di cittadinanza e sui rapporti islamo-cristiani che è stato anche segretario aggiunto del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente – sopravvivono sotto la linea della povertà assoluta in 20 quartieri degradati della città. Poi c’è la povertà rurale, che non è meno grave. Grazie ai finanziamenti sauditi, gli imam radicali e i loro seguaci rispondono ai bisogni di costoro con cliniche popolari, asili annessi alle moschee, distribuzioni di capi di abbigliamento alle famiglie povere, frigoriferi di seconda mano, ecc. Il ruolo sociale degli islamisti va crescendo, man mano che lo Stato si ritira dal welfare per mancanza di risorse». «Il problema politico dell’Egitto – dice Christopher Walker, giornalista canadese del settimanale anglofono Cairo Times – consiste nel fatto che per vasti strati della popolazione l’azione del governo è irrilevante, e ciò rappresenta una grande opportunità per gli islamisti, che provvedono al welfare dei più poveri. È vero che gli Stati Uniti forniscono aiuti pari a 2 miliardi di dollari all’anno, ma si tratta per lo più di forniture militari o di risorse che si fermano ai livelli più alti della società, senza arrivare ai più bisognosi. La gente ha l’impressione che gli aiuti americani giovino soprattutto ai militari o siano investiti in programmi di cui loro non beneficeranno mai, e gli islamisti incoraggiano questa percezione».
L’islamizzazione dei poveri procede tanto più celermente in quanto le difficoltà della vita sospingono questi ultimi verso una religiosità miracolistica: «La gente – spiega ancora Marcos – non riesce a risolvere i suoi problemi economici, il futuro fa paura perché è pieno di incognite e allora ci si rivolge a Dio in cerca di protezione, confidando che sarà Lui a risolvere i nostri problemi pratici. Molti pensano che attraverso le preghiere otterranno i soldi di cui hanno bisogno. Gli islamisti si presentano come la mano della Provvidenza: procurano l’aiuto materiale richiesto e nel contempo instillano la loro visione religiosa e politica».

Arrivano i telepredicatori islamici
La grande novità degli ultimi anni, però, è che l’islamizzazione della società ha preso nuove strade, che sfuggono al controllo diretto degli islamisti. I due esempi più dibattuti sono i cosiddetti “nuovi predicatori islamici” e i “nuovi islamisti”. I primi sono diventati i beniamini degli strati medio-alti e alti della società – quelli cioè che più hanno tratto profitto dall’attuale gestione dello Stato – perché hanno saputo soddisfare la domanda di religiosità prêt-à-porter della nuova borghesia sintonizzata sulle lunghezze d’onda della globalizzazione. Il loro capostipite – e tuttora la figura più rappresentativa – è Amr Khaled, un ex contabile privo di istruzione religiosa superiore che è diventato uno dei predicatori più famosi (e ricchi) di tutto il Medio Oriente. Khaled veste giacca e cravatta anziché la tradizionale galabia e si presenta rasato anziché barbuto. Ha inventato il talk show islamico, trasmesso non solo sulla tivù satellitare panaraba Iqraa, ma persino dalle tivù libanesi cristiane. La predicazione di Khaled è tutta centrata sul messaggio «riconciliare la religione e la vita», perché essere religiosi non significa rinunciare ai piaceri dell’esistenza e Allah è un Dio d’amore prima che un Dio che punisce. Amr Khaled, Al-Habib Aly, Safwat Hegazy e gli altri “nuovi predicatori” forniscono una giustificazione religiosa all’arricchimento («il musulmano fortunato è il preferito di Dio, perché spenderà la sua fortuna nelle opere di beneficenza»), all’ambizione individuale («una delle prove dell’amore di Dio è che ti dà l’ambizione… di salire sempre più in alto nella società») e all’etica del lavoro e della produttività («siate produttivi nell’aiuto prodigato agli amici, nel compimento delle opere, per lo sviluppo della società»). «Quando parliamo di islamizzazione non dobbiamo dimenticare questi predicatori, che appartengono allo stesso mondo dei fast food e dei videoclip, e la loro folla crescente di seguaci», mi dice Nabil Abdel-Fattah, vicedirettore dell’Al-Ahram Centre for political and strategic studies, nel suo ufficio presso il modernissimo palazzo del settimanale Al-Ahram in El Gaba Street. «In Egitto c’è una classe media che gode di privilegi, manda i figli nelle scuole straniere e può permettersi tutti i prodotti consumistici. Ma è insoddisfatta esistenzialmente e schiacciata dai sensi di colpa. Le sue crisi di coscienza non possono trovare pace nelle fatwa vecchio stile di Al Azhar, tanto meno nel radicalismo politico dei Fm. Invece questi telepredicatori gli permettono di giustificare islamicamente il loro stile di vita».

L’alba degli islamisti moderati
«Non tutta la borghesia è su queste posizioni – aggiunge Abdel-Fattah, che è uno dei massimi analisti del fenomeno islamista nel mondo arabo –, importanti settori della classe media al Cairo, ad Alessandria, a Port Said appoggiano in pieno la contestazione islamista perché sono tagliati fuori dalle opportunità di un’economia di mercato che di mercato veramente non è». Questa è una buona introduzione all’altro tema, quello dei “nuovi islamisti”. «È un fenomeno cominciato una quindicina di anni fa – spiega Marcos –, quando 6-7 intellettuali laici e di sinistra molto noti hanno lanciato la parola d’ordine del “nuovo islamismo”. Gente di vaglia, come Tareq al-Bishry, storico e magistrato, giuristi come Kamal Abul Magd e Muhammad Selim al-Awa, giornalisti come Fahmy Hawaidy. Il loro obiettivo era il rinnovamento della società, che doveva approdare in un secondo momento alla riforma politica, attraverso l’islam. Si distinguevano dai gruppi estremisti per il rigetto della violenza e dai Fm per una maggiore apertura sui temi dei diritti di cittadinanza, delle donne, dei rapporti coi copti, ecc., fino alla piena accettazione del metodo democratico. Attraverso questi personaggi l’islamismo ha guadagnato rispettabilità, in Egitto e all’estero». L’Erdogan egiziano (cioè una leadership islamista moderata non ostile all’Occidente) uscirà dalle file di questi “nuovi islamisti”? Pochi lo credono. Da alcuni anni attivisti politici che si definiscono “nuovi islamisti” cercano di ottenere l’autorizzazione alla creazione di un nuovo partito, che si chiamerebbe Al Wasat al Gedid, il “nuovo centro”. Finora l’autorizzazione è stata sempre negata. «È soltanto un nuovo tentativo dei Fm di entrare nella politica ufficiale – spiega Abdel-Fattah – lo hanno già fatto altre volte. L’unica novità interessante è che stavolta l’operazione ha provocato delle fratture al loro interno». L’affiliazione ad Al Wasat, infatti, è aperta alle donne e ai copti, e l’ideologia del partito stabilisce che chiunque ha il diritto di aspirare alle massime cariche dello Stato, anche i non musulmani. Queste aperture causano molti mal di pancia fra i Fm, anche se Muhammad Abu Fatouh, loro portavoce, si dice d’accordo su tutta la linea.
L’accettazione del metodo democratico e il riconoscimento dei pieni diritti di cittadinanza di donne e copti non è d’altra parte una garanzia di moderazione autentica. Magdi Hussein, già direttore del giornale ufficiale del partito laburista egiziano, che suo zio Adel aveva trasformato in partito islamista alla fine degli anni Ottanta, è d’accordo coi “nuovi islamisti” su pluralismo politico, democrazia dell’alternanza e diritti di cittadinanza per tutti. Ma quando entra nei dettagli della politica di un eventuale futuro governo islamista dell’Egitto mette al primo posto la rottura dei rapporti con Usa e Israele e la necessità che tutti i musulmani del mondo partecipino ai vari jihad per la “liberazione” di Palestina, Afghanistan e Irak, paesi in cui ritiene giustificati anche i rapimenti e le uccisioni di civili (vedi l’intervista sul n. 34-35 di Tempi, p. 34). E quando tenta di rassicurare l’interlocutore spiegando che «il jihad è una guerra difensiva, non è concepita per costringere qualcuno a farsi musulmano: dopo la conquista dell’Egitto da parte degli arabi, gli egiziani ci hanno messo 300 anni per diventare in maggioranza musulmani», beh, non rassicura proprio per niente.

Ma l’Erdogan egiziano deve ancora nascere
In conclusione, il quadro è abbastanza chiaro: la società egiziana non è affatto islamizzata in profondità come hanno sognato Hassan al-Banna e Sayyd Qutb, ma se si votasse domani una coalizione di partiti islamisti vincerebbe probabilmente le elezioni. Per una serie di ragioni che vanno dallo scontento nei confronti del governo in carica, alla protesta contro le politiche di Usa e Israele, all’immagine di difensori dell’interesse nazionale che gli islamisti si sono costruiti, al bisogno psicologico degli egiziani di mostrarsi rispettabili con un’adesione intransigente ai valori religiosi e morali tradizionali totalmente schizofrenica rispetto alla prassi privata e ai valori consumistici cui aderiscono di fatto. Che fare, allora? In un’altra parte del mondo si potrebbe ricorrere alla classica soluzione democratica: mettere alla prova i critici del sistema offrendo loro le leve del potere previo consenso popolare, nella certezza che al successivo appuntamento elettorale il popolo saprebbe sanzionare un governo uscente che non ha risposto alle attese. Ma con gli islamisti al potere non è affatto certo che ci sarebbe una seconda possibilità per gli elettori. Il presidente Mubarak ha messo più volte sull’avviso gli americani e il resto dell’Occidente su questo punto, e non gli si può dare torto. Alla fine la soluzione più ragionevole sembrerebbe davvero quella turca: un governo di islamisti moderati ma con l’esercito a far da garante sullo sfondo. I tempi, però, non sembrano ancora maturi. E allora accontentiamoci di quel che afferma Ashraf, il simpatizzante comunista così acuto nelle sue analisi: «Il popolo egiziano non si ribellerà mai al suo governo. L’Egitto è la più antica civiltà contadina del mondo, ed Engels ha spiegato che le civiltà dei grandi fiumi non fanno rivoluzioni, perché venerano il capo come un dio dispensatore di vita allo stesso modo del fiume; sanno che la ribellione metterebbe a repentaglio la loro sopravvivenza, come accade con le siccità e le alluvioni». A questo siam ridotti: a sperare nel dio Nilo.

Seconda e ultima parte

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