Roberta, che ha vinto un tumore e riabbracciato sua figlia Vittoria. «Come un seme, mi sono dovuta “spaccare” per rinascere»

Intervista a Roberta Culella, autrice di "Rinascere. Diario della mia Vittoria sul tumore", nel quale racconta la maternità e la lotta contro il cancro al cervello

Roberta Culella (foto a fianco), 38 anni, è manager e mamma di una vivacissima bimba bionda di tre anni. Ma prima di tutto è una donna che è tornata ad abbracciare la felicità di esistere «nel qui e ora», come ama ripetere lei, dopo aver affrontato un tumore al cervello. Roberta ha iniziato a scrivere un diario nel 2011, quando era incinta: quel diario oggi arriva in libreria e si intitola Rinascere. Diario della mia Vittoria sul tumore (Anima edizioni, 158 pagine, 10 euro), scritto in collaborazione con l’amica giornalista Sara Belotti. A tempi.it racconta la sua testimonianza di donna alle prese con il miracolo della vita in tutte le sue forme.

Questo libro è diviso in tre parti. Un diario con tre destinatari diversi. Chi sono?
Ho scelto di dividere il testo dei miei diari al momento di pubblicarli, cercando di rispettare lo scopo con cui, in vari momenti della mia vita, li avevo scritti. La prima parte si intitola “Vittoria” e corrisponde al diario scritto durante la maternità e che pensavo di consegnare a mia figlia Vittoria, quando lei fosse stata a sua volta madre. Ho sempre creduto infatti che a prescindere dall’intensità del rapporto, l’amore di una madre lo si può capire solo quando si diventa a propria volta mamma. Scrivendo in quel periodo ipotizzavo quindi di rivolgermi a mia figlia come una donna matura, che aveva preso la decisione di mettere al mondo una creatura.

In quelle pagine si racconta continuamente stupita di quello che vede. Vittoria, scrive, è «un terremoto, non stai ferma un attimo», «ogni giorno fai cose nuove». Per otto mesi racconta come cerca di ambientarsi con questa nuova persona arrivata nella sua vita.
Poi però, nel novembre 2011 ho scoperto di avere un tumore al cervello, dal quale non sapevo quando o come sarei uscita. In quel periodo della mia vita ho iniziato a capire che davvero non sapevo quanto sarebbe durata la “candela”. Io ho sempre immaginato la mia esistenza con questa metafora di una candela che brucia, lentamente. In quei giorni mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se la mia “candela” fosse stata più corta di quanto avevo sempre pensato. Mi domandavo: “E Vittoria? Capirà chi è sua mamma? Capirà cosa stiamo vivendo?”. Ho immaginato allora, di continuare a scrivere il mio diario per lei, ma immaginando che lo leggesse già da adolescente, in un momento della vita in cui, in cerca di sé, avrebbe voluto sapere meglio chi era sua madre. Questa seconda parte si intitola “malattia”. L’ultima parte del libro si chiama invece come me, “Roberta”, perché vi ho raccolto una riflessione personale, un flusso di coscienza, che ho scritto in un diario personale e inizialmente non destinato a mia figlia.

«Ci tengo a dirti quanto tu sia stata e continui ad essere la mia prima motivazione di ripresa e di recupero: nei giorni in cui ero in ospedale mi sei mancata come l’aria da respirare. E tu, dopo, come se capissi la situazione eri molto gentile e delicata, in un periodo tuo di vitalità estrema» scrive a Vittoria il 20 novembre 2011: una pagina molto intensa del diario.
Il 20 novembre 2011 è il giorno in cui ho subìto l’operazione chirurgica al cervello. Quella notte ero in ospedale nel mio letto, avevo la testa fasciata e ancora il drenaggio, e provavo un mal di testa davvero lancinante, ininterrotto, terribile. Pensai che per affrontare quel dolore dovevo legarlo a qualcosa di positivo e unico. Ho ricordato allora i dolori del parto di Vittoria, che per me sono stati fortissimi, anzi inenarrabili. Sono qualcosa che non si dimentica mai, ma li “superi” pensando a quello che ottieni dopo, a quel figlio che di lì a poco vedrai. Rispetto a tanta bellezza, il dolore diventa allora un prezzo da poco. Mi ripetevo questo cercando di addormentarmi. A quel punto il mio “inconscio” ha rielaborato questo pensiero e quella notte ho sognato che stavo di nuovo partorendo. Soffrivo e spingevo, era la stessa esperienza vissuta con Vittoria. Solo che alla fine la bambina che mi davano in braccio non era lei, ma ero io stessa. Nella mia testa ho trasformato il dolore a qualcosa di funzionale, la mia nascita a una nuova vita: «Va bene, anche il dolore di questa malattia è superabile. Proprio come se fosse un parto per me» mi sono detta quel giorno. Non ho mai smesso di lottare contro il mio tumore, anche quando la chemioterapia ha stroncato le mie forze, anche quando durante un controllo ci hanno detto che si era riformato e mio marito è svenuto. Ho avuto paura e vissuto momenti di sconforto, ma non ho mai smesso di desiderare di vivere. Ho avuto una squadra di famiglia e di amici che ha regalato forza e sicurezza a me e mio marito. Il titolo per me ha un significato ancora più ampio del sogno che ho raccontato. Penso spesso a ciò che accade ad un seme: deve spaccarsi – e chissà forse se prova dolore – per diventare albero. Ecco, anche io ho vissuto il dolore di “spaccarmi”, come un seme, per esempio quando ho dovuto tagliare i miei lunghi e amati capelli per la chemio. Ma sono rinata.

Nel percorso umano raccontato nel libro si avverte spesso un atteggiamento di profonda fiducia nei confronti delle situazioni della vita che affronta.
Penso che qualsiasi evento ci metta di fronte alla paura della morte, al senso di precarietà dell’essere umano su questa terra, ci obbliga a indagare sul significato della vita, il senso del nostro esserci. Quello che scopriamo, dopo aver ispezionato il nostro animo nel profondo, è un anelito verso l’infinito che ci attrae e ci pervade di una grandezza divina, di cui non pensavamo essere realmente parte. Questo infinito può assumere numerosi nomi: Dio, Divinità, Natura, Spirito, Essenza. Ma forse il più idoneo è Amore. L’Amore è salvifico, purché sia con la A maiuscola. L’amore per se stessi, per la vita, per ogni singola manifestazione di quell’infinito, l’amore che è gratitudine e dono, che è gratuità, mai pretesa o possesso. Concepire l’amore come entità infinita non preclude la possibilità di declinarlo in rapporti umani con gli altri. Ecco che l’amore, quando si fa legame vero, si tramuta in forza e coraggio. Se viviamo nell’amore, tutto ciò che ha importanza è qui e ora, non esistono pre-occupazioni, perché il futuro perde di significato così come il passato. Vengono spazzati via tutti i rimpianti e i rimorsi perché si manifestano in tutta la loro inutilità, automaticamente si scopre che la felicità è adesso! La felicità è desiderare niente di più né di diverso da quello che esiste hic et nunc. La felicità è semplice e accessibile a ognuno di noi, non ha nulla a che vedere con il denaro, lo status, l’ambizione o il desiderio, necessita soltanto di un cuore aperto e attento, che sia in grado di riconoscerla e di accoglierla.

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