The road

Il romanzo biblico e feroce di Cormac McCarthy Per le strade di un mondo su cui è scesa l'apocalisse, tutto quel che resta sono due uomini. Un padre e suo figlio

Fin dall’inizio il paesaggio è scuro, soffocante, da incubo: «Quando si svegliò nel bosco nell’oscurità e nel freddo della notte allungò il braccio per sentire il ragazzo che dormiva accanto. La notte scura oltre ogni immaginabile oscurità, e il giorno ogni giorno più grigio di quello precedente. Come l’insorgere di qualche freddo glaucoma che spegneva progressivamente il mondo. (.) Quando fu abbastanza chiaro per usare il binocolo osservò la valle sottostante. Tutto svaniva nella tenebra. La cenere impalpabile svolazzava in esili mulinelli sulla superficie nera. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I tratti di strada laggiù fra gli alberi morti. Cercando un colore. Un movimento. Una traccia di fumo fisso. Abbassò il binocolo, si tolse la mascherina dalla faccia, si pulì il naso col dorso del polso, poi tornò a osservare i dintorni. Quindi si sedette col binocolo in mano, osservando la luce cinerea coagularsi sulla campagna».

Il deserto ontologico
Non si sa perché. Non viene detto quale catastrofe ha ridotto così il mondo. Non ha importanza; l’importante è che si tratta di un’apocalisse ontologica, la rivelazione del nulla che alberga in fondo alle cose: «Nei primi anni le strade erano popolate di profughi avvolti nei loro abiti. Indossavano maschere e occhialoni, sedevano cenciosi sul bordo della strada come aviatori abbattuti. Le loro carriole traboccavano di stracci. Trascinavano carri e carretti. Gli occhi brillavano nei loro crani. Gusci d’uomo senza fede barcollanti lungo i sentieri rialzati come emigranti in una terra febbricitante. La fragilità di tutto si era alla fine rivelata. Vecchie e tormentose questioni dissolte in notte e nulla. L’ultimo aspetto di una cosa la definisce. Spegne la luce e via. (.) ll mondo ridotto a puro nucleo di particelle analizzabili. I nomi delle cose lentamente che lentamente seguono le cose nell’oblio. Colori. I nomi degli uccelli. Cose da mangiare. Alla fine i nomi delle cose che uno credeva vere. Più fragili di quel che pensava. Quanto se n’è già andato? La lingua sacra spogliata dei suoi riferimenti e quindi della sua realtà. Chiusa su di sé come nel tentativo di preservare calore. In tempo per svanire come un battito di ciglia, per sempre. (.) Uscì nella luce grigia, rimase lì in piedi e vide per un breve momento l’assoluta verità del mondo. Il freddo inesorabile circolo della terra senza eredi. Oscurità implacabile. La cieca corsa dei cani del sole. Il nero vuoto dell’universo in contrazione. E da qualche parte due animali braccati che tremano come volpi atterrite nei loro nascondigli. Tempo preso in prestito e mondo preso in prestito e occhi presi in prestito per piangerlo. (.) Dio non esiste (mormora a un certo punto un sopravvissuto incontrato per strada, ndr) e noi siamo i suoi profeti».
In questo mondo infernale ciò che resta sono un padre e un figlio: «Sapeva solo che il ragazzo era la sua certezza. Disse: se non è la parola di Dio, Dio non ha mai parlato. (.) Si incamminarono lungo l’asfalto nella luce color canna di fucile, trascinando i piedi nella cenere, uno per l’altro il mondo intero». La madre non ha retto all’orrore, si è suicidata. I due si sono incamminati verso sud, alla ricerca di una landa più ospitale. Hanno un carretto, quattro stracci, una preziosissima tela cerata per ripararsi. Rimediano il cibo frugando tra i rifiuti, nei resti di case bruciate e abbandonate. «Nessuna lista di cose da fare. A ciascun giorno basta la sua pena. A ciascuna ora. Non c’è dopo. Adesso è dopo. Tutti gli oggetti di grazia e di bellezza che uno tiene nel cuore vengono dal dolore. Nascono nella sofferenza e nella cenere. È così, sussurrò al ragazzo addormentato. Io ho te».

Sulla crosta di cenere
E di fronte al nulla che incombe, ogni gesto del loro rapporto si carica di risonanze universali: «Ci vollero due giorni per attraversare quella crosta di cenere. Al di là la strada correva sulla cresta di un’altura, dove la terra arida smottava da ogni lato. Nevica, disse il ragazzo. Guardò il cielo. Scendeva vagando un unico fiocco grigio. Lo prese sulla mano e lo guardò sciogliersi come l’ultima ostia della cristianità. (.) Avevano impilato sulla neve una catasta di rami secchi e sedevano avvolti nelle loro coperte guardando il fuoco e bevendo l’ultimo cacao trovato tra i rifiuti settimane prima. Nevicava ancora, morbidi fiocchi sbucavano dall’oscurità. Si appisolò nel meraviglioso tepore. L’ombra del ragazzo disegnò una croce sopra di lui. Portava una bracciata di legna. Lo guardò alimentare le fiamme. Il drago del fuoco di Dio. Le scintille sprizzavano verso l’alto e morivano nel cielo senza stelle. (.) Il ragazzo si sedette barcollando. L’uomo controllava che non cadesse tra le fiamme. Scavò delle buche nel terreno per le anche e le spalle dove il ragazzo si sarebbe sdraiato e si sedette tenendolo in braccio mentre gli lisciava i capelli davanti al fuoco perché si asciugassero. Come in un rito antico. Così sia. Evoca le forme. Quando non ti resta nient’altro fabbrica cerimonie d’aria e respira con esse».
L’unica presenza sulla strada sono bande di senza legge, che sopravvivono cibandosi degli umani che incontrano. Occorre solo nascondersi, scappare, difendersi. Eppure in questo scenario il ragazzo conserva, ostinato, un barlume di umanità. Così dopo l’incontro con un gruppo di cannibali: «Volevi sapere come sono i cattivi. Adesso lo sai. Può succedere ancora. Il mio compito è prendermi cura di te. Mi è stato affidato da Dio. Ucciderò chiunque ti tocchi. Capisci?
Sì.
Si sedette lì avvolto nella coperta. Dopo un po’ alzò gli occhi. Siamo ancora i buoni? chiese.
Sì, siamo ancora i buoni.
E lo saremo sempre.
Sì. Lo saremo sempre».
Fino al dialogo drammatico col padre malato: «Voglio stare con te.
Non puoi.
Per favore.
Non puoi. Devi portare il fuoco.
Non so come.
Sì che lo sai.
È vero? Il fuoco?
Sì, è vero.
Dov’è? Non so dov’è.
Sì che lo sai. È dentro di te. È sempre stato lì. Lo vedo.
Portami con te. Per favore.
Non posso.
Per favore, papà.
Non posso. Non posso tenere fra le mie braccia mio figlio morto. Pensavo che ce l’avrei fatta, ma non posso.
Mi hai detto che non mi avresti lasciato mai.
Lo so. Mi dispiace. Hai il mio cuore. L’hai sempre avuto. Tu sei il migliore. Lo sei sempre stato. Anche se non ci sono puoi sempre parlare con me. Puoi parlare con me e io parlerò con te. Vedrai.
Ti sentirò?
Sì. Mi sentirai. Devi semplicemente parlarmi come sei abituato. E mi sentirai. Devi allenarti. Basta non arrendersi. Okay?
Okay.
Okay».
Il finale, ovviamente, non si può raccontare, non si può rovinare la sorpresa al lettore. Ma si può dirgli che valeva la pena percorrere fino in fondo La strada.

Exit mobile version