Quo vadis Europa? Quo vadis Italia?

La potente riflessione del filosofo inglese sulla crisi dell'uomo occidentale. Solo un movimento di popolo e l'esempio che diventa virtù possono salvare la nostra civiltà

Pubblichiamo l’intervento del filosofo inglese Roger Scruton agli incontri pubblici ‘Quo vadis Europa? Quo vadis Italia?’ tenutisi a Milano e Roma nei giorni 29 e 31 maggio 2006.

Una piccola cappella sulla Via Appia Antica ci ricorda il nostro destino. Fu qui che, secondo la leggenda, San Pietro, mentre cercava di sfuggire alla persecuzione da parte delle autorità romane, fu fermato nella sua corsa dalla figura di Gesù, che gli apparve improvvisamente come spuntando fuori dal nulla. Domine, quo vadis? – domandò Pietro. Ma Gesù gli rispose facendogli la medesima domanda, e Pietro comprese che cosa doveva fare: tornò a Roma e portò a termine la sua missione.
Oggi questa domanda batte nel cuore di tutti noi. ‘Dove stiamo andando?’. L’Europa sembra fuggire dal proprio passato, dalla propria eredità, dalla propria missione cristiana. Ma fugge senza avere una meta verso la quale dirigersi. Il grande progetto europeo, che dovrebbe giustificare tutti i mutamenti sociali, legali e politici che ci vengono imposti, ha improvvisamente perso la maschera e rivelato tutta la sua nullità. I politici hanno fatto calare questo progetto sulla nostra testa a forza di trucchi e di inganni. Gli Stati-nazione dell’Europa, così ci hanno detto, resteranno liberi e democratici. Vogliamo soltanto dare vita ad una riunione di amici, facilitare gli scambi commerciali e promuovere gli interessi comuni. Ma, poco a poco, la burocrazia è cresciuta, i nostri poteri legislativi ci sono stati sottratti e l’idea di lealtà nazionale è stata rifiutata e calpestata. A quale scopo? Leggete la proposta di Costituzione Europea e lo capirete. In nessun punto parla della religione dell’Europa, delle glorie e delle imprese del passato europeo o della grande cultura che il nostro continente ha saputo produrre. Pagine e pagine di parole vuote, che rivelano una velata ostilità nei confronti dello Stato-nazione; un’agenda politica sostanzialmente socialista, e una sistematica confisca dei poteri legislativi spettanti alle nazioni. In questo documento non c’è nulla di chiaro, tranne quanto viene negato e rifiutato. Questo documento non è altro che un sistematico rinnegamento del passato europeo.
I francesi e gli olandesi hanno votato contro questa proposta di Costituzione. Ma questo non significa che verrà abbandonata. Il progetto europeo è uguale al progetto bolscevico del 1917: non c’è nessun ‘piano B’. La macchina è stata messa in moto; e quando è deragliata, gli ingegneri l’hanno semplicemente rimessa sui binari. Ogni tanto i politici parlano di un ‘percorso lento’ e di un ‘percorso veloce’ per il futuro. Ma portano entrambi nella stessa direzione, vale a dire, da nessuna parte.

Immigrazione e islam
In questo articolo mi propongo di descrivere un altro progetto: un progetto che non termina nel nulla ma in un punto ben preciso. Credo nell’Europa come il luogo nel quale noi e i nostri antenati ci siamo stabiliti, nel quale abbiamo costruito straordinari sistemi di leggi, di governo e di religione. E voglio riportare in vita l’Europa che amo e fare in modo che rimanga fedele alla propria missione. Non ho il minimo dubbio sulla difficoltà dell’impresa, e inizierò presentando i principali ostacoli che si frappongono alla costruzione di un futuro coerente per l’Europa.
Il primo ostacolo è l’immigrazione, o meglio, una forma sbagliata di immigrazione. Questo problema è nella mente di tutti noi; ma è anche un problema molto difficile da discutere. Tra le élite europee domina una sorta di benintenzionata censura, che permette a queste élite di parlare degli effetti sociali e culturali dell’immigrazione soltanto accogliendo le rivendicazioni delle comunità immigrate e criticando quelle dei paesi che le ospitano. Qualsiasi posizione che richieda agli immigrati di adattarsi alla cultura della maggioranza viene bollata come un segno di intolleranza, sciovinismo o razzismo. Ciononostante, è chiaro che esiste una differenza tra gli immigrati che desiderano adattarsi e gli immigrati che non possono o non vogliono farlo: ed è altrettanto chiaro che una società che accoglie volentieri i primi ha tutto il diritto di rifiutare i secondi.
Il secondo ostacolo è direttamente connesso al primo, ed è l’islam. Non c’è bisogno di ricordare, in questi giorni, che la visione islamica del mondo moderno è profondamente diversa da quella che abbiamo sviluppato in Europa. Ma dobbiamo ancora venire a patti con la realtà ed elaborare una coerente politica per il futuro. Il problema sta proprio qui, almeno per come lo vedo io. L’Europa è una creazione cristiana, segnata in modo indelebile da una fede che sta forse scomparendo dai nostri cuori ma che è ancora viva e radicata nelle nostre leggi. San Paolo, che ha trasformato la fede autoabnegatrice di Cristo in una forma organizzata di religione, era un cittadino romano, esperto di legge. Ha dato alla Chiesa la forma di una comunità universale, impegnata nella protezione dai poteri secolari e imperiali, ma senza nessuna pretesa di sostituirsi a questi poteri come fonte dell’ordine legale. Questo si accorda con la stessa visione di Cristo, espressa nella parabola sui tributi: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».
Di conseguenza, il cristianesimo ha sempre riconosciuto che il governo della società umana è un compito strettamente umano, e ha considerato il cristiano come un servo di Dio e allo stesso tempo come un cittadino di un ordinamento secolare. La concezione illuminista del cittadino, che lo considera unito in un libero contratto sociale con gli altri cittadini sotto uno Stato di diritto laico e tollerante, deriva direttamente dall’eredità cristiana. Grazie a quest’eredità, concepiamo l’azione politica non come un mezzo per raggiungere il regno di Dio sulla terra, bensì come un modo per mantenere un equilibrio tra persone che abitano nella stessa casa ma che non credono nella stessa religione, e i cui conflitti possono essere risolti per mezzo di una comune fedeltà nazionale e di una comune legge territoriale.
Questa visione è in netto contrasto con quella presentataci dal Corano, secondo il quale la sovranità sta nelle mani di Dio e del suo Profeta, e l’ordine legale si fonda sul comando divino. L’iniziale diffusione dell’islam nel Medio Oriente e nel Mediterraneo meridionale è avvenuta non attraverso la predicazione e la conversione, come nel caso del cristianesimo, ma attraverso la conquista. Ai popoli conquistati veniva lasciata questa sola possibilità di scelta: credere nell’islam o morire. Erano previste eccezioni soltanto per i ‘popoli del Libro’ (cristiani, ebrei e zoroastriani), i quali potevano acquisire lo status subordinato di dhimmi, vale a dire persone protette da un trattato. Ma questo trattato non concedeva alcun diritto di praticare la propria fede e proibiva ogni tentativo di conversione. All’interno del dar al-islam (la ‘Casa della Sottomissione’) potevano esistere soltanto a malapena, e la tolleranza religiosa era considerata un deplorevole espediente anziché una virtù politica.
Sono passati molti secoli, e molta storia, dai quei primi giorni dell’islam, e in molte parti del mondo si sono trovate stabili forme di convivenza tra i musulmani e i non musulmani. Ciononostante, l’antica belligerante ostilità rimane sempre appena sotto la superficie. E questo appare nel modo più chiaro in Medio Oriente, dove regimi precari, costantemente minacciati da un’esplosione dell’entusiasmo religioso, fanno ogni sforzo possibile per presentarsi in una veste capace di ottenere l’approvazione dei militanti islamici.

MUulticulturalismo
La propaganda multiculturalista messa in campo dalle nostre élite ci ha arrecato un grave danno, facendoci esitare nell’affermazione della nostra preziosa cultura, conquistata con grandi sforzi, o nel sostegno che dobbiamo dare a quei coraggiosi maestri e leader di comunità immigrate i quali hanno compreso che i musulmani devono rinunciare alla loro separatezza e associarsi alla comune impresa della cittadinanza universale. Perché la nostra libertà, i nostri diritti e i nostri costumi fondati sulla tolleranza dipendono, in definitiva, da una legge che è definita in termini nazionali e non religiosi. In uno Stato-nazione ognuno può accettare le differenze, può concedere uguali diritti a tutte le religioni e permettere ai propri avversari di parlare liberamente e influenzare il processo politico. Ma quando la religione e la famiglia costituiscono le forme dominanti dell’appartenenza sociale, la struttura politica che le accompagna è di regola il dispotismo, come avviene oggi in Medio Oriente. è proprio per questo che il 70 per cento dei profughi di tutto il mondo sono musulmani, in fuga da Stati dove la loro religione rappresenta il credo ufficiale. Ed è anche il motivo per cui tutti costoro fuggono in Occidente.
Arrivando qui, però, carichi di una preziosa eredità di doveri familiari e di valori puritani, e vedendo il comportamento licenzioso che è l’inevitabile conseguenza della libertà occidentale, questi musulmani emigrati si ritirano spesso sotto ‘l’ombra del Corano’, come ha detto l’islamista radicale Sayyid Qutb. I magnetici versetti del Libro Sacro invocano una comunità pura e senza macchia, che vive esclusivamente secondo la legge di Dio. Questa visione nostalgica ispira i giovani ad allontanarsi dalla realtà, a rifiutarsi di accettare e persino di concepire qualsiasi cosa che possa contraddirla. E produce una rabbia continuamente rinnovata contro coloro che vivono seguendo un codice di comportamento diverso e più comodo. è proprio questo stato d’animo che ha finora reso del tutto impossibile l’idea di una democrazia islamica. Ed è uno stato d’animo provato da molti musulmani di seconda e terza generazione in Europa, i quali, come l’assassino di Theo Van Gogh, considerano come un insulto la concezione di una giurisdizione laica.
Di conseguenza molti giovani musulmani aderiscono a costumi considerati inaccettabili o addirittura criminali nella nostra cultura (dal matrimonio organizzato alla poligamia e persino al delitto d’onore) e vogliono che i loro figli siano istruiti a scuola secondo le tradizioni islamiche pretendendo allo stesso tempo che sia lo Stato a pagare la retta. Frequentano moschee in cui fanatici religiosi wahabiti sputano dal loro pulpito odio contro gli infedeli e insegnano che la punizione per l’apostasia è la morte. E dimostrano con i vestiti che indossano la loro sfida all’ordinamento in cui vivono. Proprio qui in Italia abbiamo visto la conseguenza concreta della loro intolleranza, quando un convertito musulmano di origine scozzese ha avviato una causa giudiziaria per chiedere la rimozione del crocifisso dalle aule delle scuole pubbliche, sostenendo che è offensivo per la minoranza musulmana.
Ora, la risposta più giusta a una protesta di questo genere è molto semplice. Il crocifisso è un simbolo della religione della maggioranza degli italiani, altrettanto sacro per i cristiani quanto il Corano lo è per i musulmani. Se i musulmani si sentono offesi dal crocifisso, sono liberi di andare da un’altra parte, in Scozia, per esempio, dove non ci sono crocifissi nelle aule scolastiche, a meno che non si tratti di una scuola privata. Se le minoranze hanno il diritto di affermare la propria identità, lo stesso vale per le maggioranze. E se le minoranze vogliono obbligare la maggioranza a privatizzare i simboli della propria fede, devono essere pronte a pagarne il prezzo, che è lo scontro.

La matrice europea
Naturalmente, questa non è la risposta che ha dato la nostra élite politica. La quale ha sempre preferito concedere territorio anziché difenderlo e mostrare la propria tolleranza nei confronti delle richieste delle minoranze, ignorando le più moderate ma molto più legittime richieste della maggioranza. In una parola, ha preferito l’appeasement allo scontro. Tuttavia, se la storia moderna ha qualcosa da insegnarci, è proprio che l’appeasement non funziona mai. è stata la politica dell’appeasement che ha permesso alla Germania di riarmarsi negli anni Trenta dello scorso secolo, e che ha messo nelle mani di Hitler i territori di cui aveva bisogno per creare la propria base industriale. è stata questa stessa politica che ha dato potere prima a Lenin e poi a Stalin, e che ha consentito all’Unione Sovietica di imporre il proprio giogo sull’Europa orientale. Non si è mai ottenuto nulla con l’appeasement, il quale è, per sua stessa natura, una strategia di sconfitta. Comporta la rinuncia ai propri interessi, senza ottenere nulla in cambio. Ed è questo il rischio che ora corrono le élite europee di fronte agli islamisti.
Questo mi conduce al terzo problema che dobbiamo risolvere in Europa, ancora più serio di quello islamico. è il problema della nostra identità culturale. Il Trattato Costituzionale Europeo ci ricorda che un grande numero di europei, compresi coloro che hanno preso il controllo del continente, non ha alcun autentico affetto per la cultura europea. Considerano come il frutto di una semplice casualità storica il fatto di vivere sullo stesso continente in cui sono vissuti Dante, Shakespeare e Mozart, di abitare in città dominate da grandi cattedrali e di essere protetti da uno Stato di diritto che deriva dal codice dell’imperatore Giustiniano e dalla common law delle tribù sassoni. Anziché affermare la nostra paternità di queste cose e di considerarle come la chiave della nostra identità condivisa e del nostro destino comune, ci viene chiesto di ‘diversificare’, invocando un approccio ‘multiculturale’ su ogni questione di decisiva importanza culturale. Molti, in realtà, hanno un atteggiamento di aperta ostilità nei confronti dell’eredità europea, sono aggressivamente anticristiani e sostengono un approccio ‘postmoderno’ che rifiuta ogni tentativo di raggiungere un consenso culturale.

Da dove cominciare?
Il rifiuto dell’eredità europea non è certo una novità. Se ne possono riconoscere i primi vagiti già nell’Illuminismo. Ha costituito un impulso decisivo per i Giovani Hegeliani (in particolare per Marx) ed è ripetutamente tornato in superficie durante le guerre e i conflitti del Ventesimo secolo. Si è fatto concretamente sentire qui in Italia negli anni Sessanta, quando una sorta di marxismo obbligatorio ha completamente annichilito la vita intellettuale. In quegli anni la cultura del rifiuto si ammantava persino delle vestigia del suo antico fervore rivoluzionario, con le Brigate Rosse in Italia e la Banda Baader-Meinhof in Germania scatenate da una fantasia privata di vendetta contro la società borghese. Dopo, il rifiuto si è diffuso nelle nostre università. Ha abbandonato il marxismo soltanto per accogliere prima il decostruzionismo e poi il postmodernismo: tre credi sostanzialmente negativi, tre modi di rifiutare la civiltà europea e di voltare le spalle al passato. Dalle università, la cultura del rifiuto si è diffusa nelle scuole e oggi in Europa non esiste più quasi nessuna scuola pubblica nella quale si insegnino la cultura e l’eredità dell’Europa. Il nostro programma di studi è fondato sull’insicurezza e ci troviamo con una cultura sull’orlo del suicidio.
Ebbene, direte, che cosa dobbiamo fare allora? Se la situazione è davvero così disperata, non siamo forse destinati ad affondare definitivamente e ad abbandonare ai musulmani il nostro continente? La mia risposta è che non siamo affatto destinati a una sorte del genere, che le nostre debolezze sono autoinflitte e che non è in alcun modo troppo tardi per riuscire a salvarci. La cultura del rifiuto non offre nessun conforto duraturo, e ce ne possiamo sbarazzare in qualsiasi mo-mento. La minaccia musulmana, quando verrà affrontata di petto, si ridurrà fino a scomparire, proprio come è avvenuto dopo la riconquista dell’Andalusia e dopo la battaglia di Vienna. E le folli politiche sull’immigrazione che ci hanno sprofondato nell’attuale crisi verranno accantonate non appena ci metteremo a fare ciò che è nostro dovere fare, ossia difendere la nostra eredità.
Da dove comincia questa difesa? Ci vorrebbe innanzitutto un appello per un risveglio cristiano, e in America un appello di questo genere riuscirebbe senza dubbio a conquistarsi un seguito. Ma per gli europei è impossibile ignorare il fatto che la loro fede si è ormai ridotta al lumicino; che vive nei palazzi, nelle pinacoteche e nei conventi, e pulsa nella letteratura e nella musica del nostro continente, ma non nel cuore della sua gente. è proprio per questa ragione che abbiamo bisogno di un nuovo tipo di movimento, altrimenti rischiamo di scomparire.

Vie de Mansard
Quando studiavo all’università era opinione diffusa che si potesse ottenere direttamente dalla cultura tutto quanto ci serve della nostra eredità cristiana. La moralità, la disciplina spirituale e il senso della comunità possono essere assorbiti da Dante, Milton e T. S. Eliot. Possiamo assorbirli anche da Wagner, il cui Parsifal ci ha mostrato il significato morale dei simboli cristiani senza pretendere che crediamo in essi. Se abbiamo bisogno di una filosofia, ci sono numerosi sistemi già pronti come quelli di Kant, Hegel o Schopenhauer, tutti profondamente permeati della medesima cultura cristiana, indipendentemente dal fatto che credessero o meno nella fede cristiana. Ho lasciato l’università convinto che, se fossi rimasto aggrappato alla cultura europea, avrei avuto in mano la sola ancora di cui avevo bisogno e la sola che avrei potuto ottenere nel caotico mondo della vita moderna.
Pensavo, come molti altri giovani della mia generazione, che le cose avrebbero continuato normalmente a esistere, che i presupposti impliciti sui quali si basa la nostra società sarebbero stati mantenuti e che avrei trovato amici, amanti e compagni con i quali condividere la vita. Volevo raggiungere la vie de mansard, dimenticandomi che il tetto deve essere rifornito dal piano terra. Come stanno ora scoprendo i francesi, la vie de mansard dipende dall’ordine sociale nelle strade; e questo ordine deve essere rinnovato, altrimenti la vita sul tetto perde tutto il suo significato. Questo, io credo, è la grande impresa che dobbiamo realizzare. Non possiamo salvare la nostra civiltà semplicemente gettando nel cestino le ideologie marxiste, post-marxiste, decostruzioniste e postmoderniste che dominano nelle nostre università. Anche se tornassimo al classico programma di studi e insegnassimo la cultura europea nello stesso modo in cui è stata insegnata a me, questo non servirebbe a ricreare quel pubblico consenso dal quale dipende la nostra civiltà. Non farebbe altro che sottolineare l’esistenza del divario tra la nostra eredità culturale e la vita concretamente vissuta.
Abbiamo perciò bisogno di un movimento capace di riportare in vita un autentico consenso pubblico che promuova i valori specifici della nostra cultura e ci permetta di volere nuovamente la nostra sopravvivenza e di volerla collettivamente. Infatti, è di questa volontà che abbiamo bisogno, e non di prosperità, se vogliamo davvero risolvere i problemi potenzialmente fatali che ho menzionato all’inizio di questo articolo. Ora cercherò di descrivere il tipo di consenso che dobbiamo costruire e il modo in cui possiamo farlo.
La cosa più importante sulla quale i popoli europei devono essere incoraggiati a concordare è questa: le nostre radici sono giudaico-cristiane e la Bibbia, nonché le due religioni che da essa derivano, è una parte indispensabile della nostra cultura. Anche se non crede più nella fede ebraica o in quella cristiana, la maggioranza degli europei può essere ancora stimolata a riconoscere l’importanza della tradizione che unisce queste due fedi e il ruolo decisivo che questa tradizione ha avuto nella storia europea. Sono convinto che sia necessario dare il giusto spazio, nel nostro sistema scolastico, nella vita familiare e nella cultura pubblica, al riconoscimento dell’eredità giudaico-cristiana. Non voglio dire che debba essere imposta in modo dogmatico, o che ci si debba costantemente riferire ad essa. Ma ritengo che le debba essere accordata la preminenza e l’onore che le spetta. E credo che alle numerose voci anticristiane presenti oggi all’interno della nostra società bisognerebbe rispondere in tono molto deciso, ponendo le seguenti domande: Che cosa volete mettere al suo posto? E questa cosa saprà offrire conforto? Saprà dare alla gente la forza di cui ha bisogno per combattere gli obiettivi e i metodi del radicalismo islamico?

Il ruolo degli intellettuali
Qui, mi sembra, noi intellettuali possiamo dare un contributo concreto. Le più forti voci anticristiane si levano tra gli intellettuali, e bisogna affrontare le loro argomentazioni. Io stesso mi sono prefissato il compito di dimostrare, nel modo più chiaro possibile, che la tradizione democratica liberale, generalmente considerata il frutto dell’illuminismo europeo, è in realtà un prodotto del cristianesimo. Deve naturalmente qualcosa a Moses Mendelssohn, il padre dell’illuminismo ebraico. Ma deve ancora di più a una tradizione di pensiero che risale fino all’inizio del papato e che considera il governo laico e la libertà di coscienza come i due pilastri fondamentali della pace sociale. Nessuna di queste due cose è riconosciuta dal Corano, che considera tutta la legge e il governo come un affare riservato al reggente di Dio sulla terra e che permette la conversione all’islam ma non quella ad altre religioni. La tensione che esiste tra islam e democrazia non è una casualità della storia. Riflette invece la profonda opposizione tra la concezione islamica e cristiana del rapporto tra Dio e l’uomo.
Ora, mi sembra che le libertà laiche dalle quali dipende la nostra vita culturale e intellettuale non esisterebbero senza l’eredità cristiana. E scomparirebbero non appena questa eredità fosse soppressa. Per averne la prova basta osservare la storia del Ventesimo secolo. Non appena hanno trionfato i credi ateistici del marxismo-leninismo e del nazismo tutte le libertà di cui gli intellettuali godevano sono state soppresse. Osservate l’odierno mondo musulmano, dove gli scrittori e i pensatori sono censurati e talvolta minacciati addirittura di morte, come nel caso di Naguib Mafouz. Provate a cercare in qualsiasi parte del mondo le libertà laiche che noi consideriamo un valore fondamentale e troverete con ogni probabilità una cultura cristiana o una cultura profondamente influenzata dalla tradizione giudaico-cristiana.
Per creare un consenso pubblico il primo elemento di cui abbiamo bisogno è quindi la disponibilità a privilegiare l’eredità giudaico-cristiana. Dovrebbe essere promossa nei dibattiti, nei programmi di studio scolastici e nelle università, non per imporla come una fede ma per stimolare una visione illuminata di ciò che siamo e di dove stiamo andando. I giovani di oggi sono affamati dal desiderio di conoscere questa eredità; sanno istintivamente che gli appartiene per diritto di nascita, e sono convinto che l’accoglieranno non appena sarà messa a loro disposizione. Ci sono le condizioni giuste per realizzare questo obiettivo. Infatti, questi giovani sono esposti alla sfida esistenziale dell’islamismo radicale, che gli pone questa domanda: chi siete voi, e per quale motivo dovrei rispettarvi? E chi non possiede un senso del passato non è in grado di rispondere a questa domanda.
Ma l’opera di costruzione del consenso non è compito esclusivo degli intellettuali. Tutto quello che gli intellettuali possono fare è liberare il campo nel quale possono sbocciare le idee e combattere la cultura del rifiuto. Importanza ancora maggiore va assegnata alla reintroduzione, nella cultura della gente, delle concezioni cristiane sulle quali si fondano le norme sociali della vera Europa. Questa è stata l’opera realizzata dalla Chiesa, ma la Chiesa non è più in grado di farlo da sola, perché ormai le sue parole sono ascoltate soltanto da una minoranza. Forse la società europea tornerà un giorno alla sua fede ancestrale. Ma non possiamo darlo per scontato. E più probabile che si apra una lunga fase di scetticismo. Ciononostante, le concezioni cristiane possono essere recuperate anche in presenza di atteggiamento scettico.

Fracasso e rifiuto
Dovremmo riappropriarci del più importante dono che ci ha fatto il cristianesimo, vale a dire il perdono. La felicità non deriva dalla ricerca del piacere e non è garantita dalla libertà. La felicità nasce dalla rinuncia: è questo il grande messaggio della religione cristiana e anche il messaggio espresso da tutte le opere memorabili realizzate dalla nostra cultura. Questo messaggio è stato soffocato dal fracasso del rifiuto; ma, a mio parere, può ancora essere sentito se ci impegniamo a riportarlo in superficie. E per la tradizione cristiana il supremo atto di rinuncia è il perdono: rinuncia alla rabbia e al desiderio di vendetta. Questo può essere insegnato a qualsiasi livello: nella famiglia, nelle aule scolastiche, nelle istituzioni della società civile e persino nel mondo degli affari.
Vorrei ora fare alcune osservazioni su quella che Nietzsche avrebbe definito la ‘genealogia’ del perdono cristiano. Nietzsche considerava il cristianesimo come l’espressione di una ‘moralità schiava’, la moralità di chi ha come principale passione sociale non il desiderio di successo ma il rancore per il successo degli altri. Il rancore (o ressentiment, come lo chiama Nietzsche) costituisce la radice non soltanto dell’umiltà cristiana (che è il rovescio del desiderio di vendetta) ma anche delle ideologie egualitarie e socialiste del mondo moderno. In una società ideale il rancore viene tenuto a bada, perché i forti esercitano il proprio controllo sui deboli. Nella società cristiana, invece, il rancore è il principio guida della cultura nonché la fonte di quell’atteggiamento egualitaristico e di quel vile disfattismo da cui Nietzsche si sentiva circondato.
Max Scheler, nel suo libro Ressentiment, dedicato appunto a questo tema, ci offre una decisiva confutazione della critica nietzschiana della religione cristiana. Tutt’altro che un tentativo da parte dei deboli e dei vili di sottrarre il potere ai più forti, il cristianesimo rappresenta il tentativo di dare il potere a tutti, attraverso la disciplina spirituale e il principio del perdono. Le società moderne non sono oppresse dal rancore a causa del cristianesimo; la vera causa non è la religione bensì il suo contrario: l’ossessiva concentrazione sulle cose di questo mondo, che porta l’uomo a invidiare il suo prossimo e a cercare di togliergli ciò che possiede. Per di più, sostiene ancora Scheler, il rancore è alimentato dallo Stato socialista, che può confiscare tutto ciò che un individuo riesce a conquistare con il proprio successo e può dare soddisfazione ai sentimenti di vendetta di chi ha fallito. Sono incline a concordare con Scheler, tanto nella sua critica a un certo tipo di socialismo quanto nel suo scagionare il cristianesimo dall’accusa lanciatagli da Nietzsche. Ma la sua argomentazione serve soltanto a ribadire l’enigma fondamentale: perché dovremmo provare rancore, anziché gioia, per le buone cose che altri possiedono?
è tipico del comportamento animale che i membri di una mandria o di un branco non siano mossi da sentimenti di rancore, neppure quando combattono. Una volta che l’ordine gerarchico è stato stabilito, prevale la pace e tutti gli antagonismi sono presto dimenticati. Come ha dimostrato Konrad Lorenz in un suo famoso saggio (On Aggression, pubblicato nel 1963), gli animali sono caratterizzati dall’aggressività, che ha una funzione essenziale per il loro dominio sul territorio, ma non dall’odio, che non ha nessuna utilità per la conservazione della specie. Gli uomini sono diversi dagli animali, perché le loro azioni non sono determinate esclusivamente dalle necessità di conservazione della specie. Inoltre, gli uomini vivono come esseri individuali e morali, esposti al giudizio. Di conseguenza possono sentirsi umiliati, oppressi, degradati; possono nutrire pensieri di vendetta e trionfo e impegnare in questi pensieri tutta l’egoistica ambizione delle loro nature insultate.

Il capro espiatorio
Il critico e antropologo René Girard ha studiato questo tema in una serie di libri affascinanti: La violenza e il sacro, Il capro espiatorio e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Girard ritiene che la violenza deriva dalla natura ‘mimetica’ dei legami sociali, fondati sulla rivalità e l’imitazione. Questa violenza deve essere scaricata di tanto in tanto, e a tale funzione assolve il capro espiatorio, la vittima, colui che è ‘cacciato fuori’ e che porta sulle sue spalle la colpa della collettività. Attraverso la sua morte, il capro espiatorio ci libera dalla nostra rabbia repressa e ci permette di tornare a convivere in termini accettabili con il nostro prossimo. è proprio per questo che il capro espiatorio è prima ucciso con violenza e poi, una volta morto, adorato come un salvatore. Il processo di vittimizzazione è quindi un metodo impiegato dalle società per stabilire la pace al proprio interno. E una funzione essenziale della religione è quella di limitare il danno causato da questa vittimizzazione, fornendo dei sostituti sacrificali, come gli animali sgozzati sull’altare o i miti sugli dèi che muoiono e rinascono. Girard riconosce nelle proprie osservazioni una specie di prova della moralità cristiana, in quanto Cristo viene presentato come un capro espiatorio che ha saputo comprendere e perdonare i suoi persecutori, e perciò porre il perdono, anziché la violenza, nel centro pulsante dell’ordine sociale.
Queste riflessioni vi potranno sembrare esagerate e fuori luogo, e confesso che nemmeno io sono certo su come giudicarle. Cionono-stante, non ho il minimo dubbio che gli uomini, sebbene siano degli esseri razionali, tendano a una violenza irrazionale, che il rancore sia una causa primaria di questa violenza e che il ricorso all’espediente del capro espiatorio possa permettere la sua neutralizzazione ma anche amplificarne a dismisura la portata (questo è esattamente ciò che vediamo nell’antisemitismo dei nazisti, nell’ostilità dei comunisti verso la borghesia e nell’odierno antiamericanismo degli islamisti). E concordo con Girard sul fatto che i Vangeli cristiani ci mostrano il solo antidoto conosciuto per questo difetto dell’uomo potenzialmente disastroso: perdonare coloro che ti odiano. Nulla di equivalente a questo antidoto si trova nelle implacabili pagine del Corano, un libro che, malgrado tutta la sua ispirazione poetica e il suo elevato tono morale, è assolutamente privo della grazia salvatrice dell’ironia. Kierkegaard è stato probabilmente il primo filosofo a riconoscere nell’ironia la virtù che univa Socrate e Cristo. E se io dovessi proporre una definizione di questa virtù, sceglierei la seguente: la capacità di riconoscere l’alterità di ogni cosa, compreso se stessi. L’ironia conduce all’umiltà e all’umorismo, due qualità che non possono essere riconosciute nella voce che parla attraverso il Corano e che sono invece abbondantemente presenti nei Vangeli.

Riconoscere l’alterità
A mio giudizio, la nostra eredità democratica si spiega, in definitiva, attraverso la radicale innovazione che Girard ha messo in luce: la redenzione offerta all’umanità dalla sua stessa vittima sacrificale, il cui perdono porta la pace. Perdonare gli altri significa accettare la loro alterità e quindi concedergli, nel proprio cuore, la libertà di esistere. Significa perciò riconoscere che l’individuo libero è padrone assoluto della propria vita e libero di fare tanto il bene quanto il male. Di conseguenza, una società fondata sul perdono tende naturalmente a uno sviluppo democratico, perché è una società nella quale la voce dell’altro viene ascoltata e presa in considerazione per tutte le decisioni che lo riguardano.
Mi sembra quindi che il perdono si trovi al centro stesso della nostra civiltà e che rappresenti sia ciò di cui dobbiamo essere più orgogliosi sia il nostro mezzo principale per disarmare i nostri nemici. Sta alla base della nostra concezione di cittadinanza, che è fondata sul consenso. Ed è concretamente espresso nella nostra concezione della legge, intesa come un mezzo per risolvere i conflitti trovando una giusta soluzione. Spesso non ci si rende conto che questa concezione della legge non ha praticamente nulla in comune con la sharia, che è concepita come un sistema di comandi emanati da Dio e non sottoponibili a ulteriore giustificazione. Per noi la legge non è un sistema di comandi, ma un sistema di diritti, che definiscono le posizioni a partire dalle quali possiamo raggiungere un accordo reciproco e vivere in pace.

L’imitazione come virtù
Sono queste, a mio giudizio, le concezioni cristiane che vivono ancora nella nostra civiltà, e che devono essere rinnovate e propagate: la regola del perdono, il riconoscimento dell’Altro, e l’accettazione del diritto dell’Altro ad essere diverso da me. è qui che sta la radice del conflitto esistenziale con l’islam e che si dimostra la realtà di questo conflitto. Dovremmo essere orgogliosi di questo aspetto della nostra cultura e fermamente decisi a promuoverlo. E dovremmo considerarlo come una prova della superiorità della nostra eredità, anche se non siamo pronti a spingerci fino a dove arriva la Chiesa, secondo la quale è una prova del fatto che la nostra eredità deriva direttamente da Dio.
In conclusione, devo affrontare il problema più importante sollevato da questa argomentazione. Come si può reintrodurre questa concezione dei rapporti sociali in un mondo dominato dal relativismo, dal postmodernismo e da uno sfrenato soddisfacimento delle proprie passioni? Ebbene, io ci sono riuscito, senza dover ricorrere a uno sforzo di teorizzazione. La teoria può servire di fronte a un pubblico di intellettuali. Ma non serve a nulla con la massa dell’umanità. Appartiene alla mansard e non alla strada.
La risposta, a mio parere, ce l’ha fornita Aristotele con la sua teoria della virtù. Gli uomini, sostiene Aristotele, acquisiscono le virtù attraverso l’imitazione, ossia copiando il comportamento virtuoso, fino a quando il principio della virtù si scolpisce nell’anima. La concezione cristiana della società si diffonde non per mezzo della teoria ma con l’esempio. E l’esempio deve essere concreto e visibile, affinché sia motivo d’ispirazione non solo di carità, umiltà e clemenza ma anche di coraggio. Quando osservo l’attuale società europea, la vedo pronta per accogliere questo esempio: e quando le sarà stato dato l’esempio, la gente se lo porrà nel proprio cuore e lo seguirà. Improvvisamente, i tre problemi da cui sono partito appariranno come problemi risolvibili. La gente avrà la volontà di discuterli, di affrontarli e di prendere i provvedimenti che saranno necessari per salvare il nostro continente. Ma una cosa è certa: a fare il primo passo non sarà certo un membro dell’attuale élite politica.

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