Questo,fanciulla,era prima di te

Quale dialogo è possibile fra il cristianesimo e il mondo religioso ebraico? Riflessioni su un vecchio articolo nell’imminenza della nuova Pasqua. In margine ad un intervento di monsignor Luigi Giussani

Un breve articolo su Repubblica, finitomi un po’ fortunosamente tra le mani, benché risalga allo scorso 2 gennaio, mi sfida ad una riflessione. L’articolo porta la firma di Luigi Giussani e perciò suscita un effetto di dislocazione.

Un’immagine intensa e insolita del cristianesimo L’inconsueta meditazione si snoda sul martirio degli ebrei europei nella seconda guerra mondiale ed è attenta, presumibilmente, ad interlocutori fra l’ebraismo religioso; e, benché il pensiero di Giussani sia rivolto all’ebraismo antico e moderno, presenta tuttavia un’intensa, insolita immagine del cristianesimo, in quanto la meditazione si offre come sguardo e cuore e intelletto di cristiano di fronte ai grandi temi della nostra epoca. Perciò l’effetto su chi legge (almeno su di me lettore) è quello di una riflessione sull’ebraismo capace di chiarire l’originalità del cristianesimo e di questa il senso. Nel cuore della meditazione (così lontana dal conformismo che l’argomento ha dappertutto imposto), “l’assurdo sacrificio” sopportato dagli ebrei e gridato oggi al mondo viene definito da Giussani una “pedagogia per tutti i cristiani”, riferendosi direttamente alla dichiarazione di un papa, Pio XI: “Noi siamo spiritualmente degli ebrei”.

Il “servo di Jahve”
nella profezia di Isaia Con questo richiamo al giudizio di Pio XI, Giussani riassume la tradizione cattolica millenaria della distinzione tra l’Israele carnale e spirituale, cioè tra ebraismo e cristianesimo. Solo che oggi la carne d’Israele non può più, agli occhi dei cristiani, venire separata da un marchio di sofferenza, il cui senso deve paragonarsi con larealtà di Cristo. E questo vuol dire una cosa, che Giussani esprime in modo sommesso ma preciso.

La profezia di Isaia del “grande giorno” disegna la tragica figura (“che si è caricata dei nostri dolori”) del “servo di Jahve” o “Messia”, in cui i cristiani hanno da sempre riconosciuto Gesù di Nazareth. La memoria di dolore degli ebrei, scrive Giussani, se meditata in senso religioso, può con evidenze certe suggerire il richiamo alla passione di Cristo.

Essa vale per i cristiani, perciò, come una pedagogia, perché li provoca ad interrogare la loro propria memoria. La storia degli ebrei fino a Gesù, scrive Giussani, si offre ai cristiani come profeticamente analogica con la loro stessa storia. Ciò vuol dire che il popolo di Dio, cioè la Chiesa dei cristiani, guarda al popolo ebreo e alla sua storia antica fino a Gesù come a una figura della propria storia: la fedeltà ad una elezione, con l’apprendimento del Dio nascosto.

Ora, però, anche il senso del recente olocausto richiama quella storia, né si può dimenticare che la profezia non è muta dopo Cristo: solo che l’adempimento delle profezie è già iniziato ad accadere, il senso è rivolto a ciò che è già avvenuto. Perciò una tragica testimonianza di fedeltà religiosa, anche nella storia moderna, può costituire un perentorio e profondo richiamo al rapporto dei cristiani con la loro elezione. Oltre a ciò, il compimento di senso di ogni sacrificio e martirio degli uomini è racchiuso nella vicenda, di passione e di espiazione, e perciò salvifica, di Gesù crocifisso. Qui dunque sta il punto della questione.

L’Olocausto e il martirio dei popoli Ma se questa memoria dei cristiani deve comprendere le “passioni” dei popoli e degli individui senza possibilità di discriminazione: innanzitutto il martirio di milioni di cristiani nei gulag sovietici (cristiani soprattutto ortodossi, e forse per questo “dimenticati” dalla nostra Chiesa?) o quello degli armeni nei massacri turchi o quello dei cristiani di Spagna sterminati nella guerra civile (chi finirebbe di contare gli olocausti “nascosti” o semplicemente rimossi nell’epoca delle guerre mondiali, quelli che rimarranno senza rapsodi, pur nobili o volgari, fino a comprendere la popolazione tedesca strappata dalle terre divenute russe e polacche nel 1945 e mandata allo sterminio?) – se deve abbracciarli veramente tutti, in questo ascolto di senso, non può tuttavia non soffermarsi in particolare sulla tragedia ebraica: non solo per la perentoria determinazione con cui essa viene assiduamente evocata, ma soprattutto per lo speciale rapporto che avvicina in modo altamente problematico il popolo dei cristiani e il popolo degli ebrei.

Messianismo ebraico e messianismo cristiano Non vi è alcun dubbio che a Giussani non interessa, a questo proposito, fare esercizio di gratuita edificazione. Davanti alle tragedie della nostra epoca, gli intellettuali sono istintivamente imitativi, poiché i loro sentimenti pubblici coincidono facilmente con quelli dei potenti del loro tempo. Invece la questione posta da Giussani è decisiva per il cristianesimo.

Essa riguarda il rapporto del senso della storia con la Chiesa, e quindi lo stesso senso del cristianesimo, nell’incessante tensione di profezia eavveramento, anche in paragone con l’ebraismo.

I cristiani si devono interrogare sull’attesa degli ebrei, a causa dell’antica elezione di questi a popolo dei profeti. Nella fedeltà di quanti, tra essi conservano oggi la memoria del Messia, per quanto intesa come restaurazione definitiva della collettività d’Israele, bisogna riconoscere l’analogia con quello stesso Mistero (Isaia 42,1) che, come scrive Giussani, “è voluto intervenire nella tragedia dell’uomo dentro il cosmo, divenendo uomo”, cioè Gesù Cristo. Una fedeltà, perciò, provocante per i cristiani, perché se suppone un antico rifiuto che ricorda la condanna di Cristo, conserva anche il valore di una testimonianza tenace: nella vita dei cristiani infatti, ricorda Giussani, “la fatica di fedeltà nell’attesa di Dio si realizza anche come croce”.

La parola decisiva: perdono Quale dialogo è possibile fra il cristianesimo e il mondo religioso ebraico? Giussani rievoca la testimonianza ebraica dell’attesa di una restaurazione integrale dell’umanità.

Una tale restaurazione per i cristiani ha già avuto inizio, per gli ebrei avverrà solo alla fine dei giorni. Questa è la lezione di Giussani. Qual’è il senso di una tale differenza? Che l’elezione con cui Cristo si è fatto incontrare non è vista come presunzione, ma deve essere perdonata come non meritata, perché è grazia. Perciò, scrive finemente Giussani, nei confronti della loro fatica di portare ancora tutto il peso della storia, “saremmo più felici di chiedere ai nostri fratelli ebrei di perdonarci la nostra certezza”.

Nella parola perdono è il vero volto del cristianesimo: e, nei confronti dell’ebraismo, la sua vera originalità. Anche la certezza è “stupefatto paragone, per cui a noi poveri uomini comuni il Mistero di quella persona si è comunicato”. Una lezione non fondamentalista.

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