Quel giorno, quei giorni, tra la vita e l’eterno con Martini

Le confidenze personalissime di un’anima inquieta: «La morte mi spaventa, ma mi rendo conto che è l’unica possibilità di abbandonarsi completamente al Padre, nelle Sue mani»

Il sole entrava tracciando lunghi raggi di luce sul pavimento a losanghe del grande istituto dei gesuiti a Gallarate, dove da tempo viveva il cardinal Carlo Maria Martini, padre Martini come voleva essere chiamato da quando aveva lasciato la cattedra di arcivescovo di Milano. Il Parkinson non aveva ancora leso del tutto la capacità di parlare (di lì a poco gli avrebbe tolto quella Parola che per lui era stato il grande metodo di incontro e di comunicazione con le persone e con il Mistero).

C’eravamo incontrati molte altre volte, ma quel giorno gli avevo chiesto un colloquio per parlare di qualcosa di molto intimo, personale, personalissimo: di quel momento che, lo sapevamo bene tutti e due, ben presto avrebbe avvolto la sua vita. Dovevamo parlare della Morte.

«Mi trovo a riflettere – aveva detto – nel contesto di una morte imminente». La voce era un sussurro, gli occhi più azzurri e penetranti guardavano seguendo attenti l’interlocutore. Ora qualcuno scrive delle sue “aperture” alla morte assistita, ma ricordo bene, e l’ho registrato, che in quel colloquio era stato ben chiaro, padre Martini, nel porre dei punti fermi: «Tanti problemi si pongono perché la medicina ha avuto uno sviluppo tecnologico immenso: può far quasi tutto, la gente pensa che possa far miracoli. Quindi ci si ritrova di fronte a una nuova coscienza del malato e della morte. Ma ci sono dei punti fermi. C’è un punto fermo che riguarda naturalmente la dignità della vita fisica e la sua primarietà. Però nel cristianesimo non c’è solo questo, perché la vera dignità che il cristiano intravede nella persona è la sua dignità eterna, è il suo essere chiamato alla Comunione con Dio, perciò Gesù nel Vangelo dice: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo ma di quelli che possono mandare corpo e anima all’Inferno”. E poi del resto il martirio è proprio questo, non badare alla propria vita fisica quando c’è in gioco un valore superiore. Tenendo fermo questo, la vita fisica ha comunque un valore grande e quindi va difesa e promossa in tutti i modi. Certo un tempo era più facile distinguere i mezzi ordinari e i mezzi straordinari, perché la teologia ha sempre detto che uno è obbligato ad assumere i mezzi ordinari mentre di fronte a quelli straordinari può tirarsi indietro. Insomma, bisogna difendere la vita, pensandola però in relazione alla vita eterna».

La possibilità di una scelta totale

Il colloquio si era fatto più personale, più difficile forse per me che per lui portarlo a parlare esplicitamente della morte, dell’istante dove si incrociano la domanda ultima e l’estrema possibilità di una scelta totale: «Chi non ha una speranza cristiana, se soffre molto, penso che si ponga la domanda sul valore di questa esistenza, l’ho visto più volte». Cioè, gli avevo chiesto, il grido a Dio viene prima della risposta e della dottrina? «Sì, questo sì! E la domanda e la preghiera, “se ci sei mostrati”, viene già prima». Poi il vecchio cardinale aveva raccontato di un malato terminale, delle sue atroci sofferenze, dei suoi ultimi momenti, del dolore di chi gli stava accanto e gli voleva bene. Parlò soppesando le parole, parole sulle quali mi chiese di essere discreto e riservato. Mi autorizzò a riportare solo l’ultima parte del discorso, quando aveva parlato di se stesso.

Gli avevo chiesto: lei dice «sono in lista di attesa». Aveva avuto un sobbalzo: «Vorrà dire: in lista di chiamata!». La domanda successiva era stata spontanea come immediata era stata la risposta. Essere sacerdote, vescovo, aiuta o siamo tutti sulla stessa barca? «Ci si trova senza capacità». Lo aveva ripetuto due volte: «Senza capacità. Nudi e crudi di fronte alla morte. Così si trova ciascuno e non si possono invocare azioni passate. E debbo dire che il pensiero della morte un po’ mi spaventa. Sì, mi spaventa perché lo vedo come un passaggio oscuro… Poco fa ho assistito un confratello che stava molto, molto male. Soffriva, non riusciva a respirare. Questo sì, mi spaventa. Però mi dà speranza la certezza che c’è una Resurrezione, che c’è una vita promessa, ma questo non toglie la paura».

Il rimprovero al Signore

Ricordo che tanti anni prima, durante un’intervista televisiva nel giorno di Pasqua, il Cardinale aveva parlato della Resurrezione e alle mie domande aveva risposto con grande fermezza: «La Pasqua è un fatto, la Resurrezione è un fatto. Un evento che dà significato a tutto. Dobbiamo guardare al fatto, all’Evento». (Parole, ricordo, che fecero sobbalzare di gioia don Luigi Giussani). Ma in quel momento, nell’imminenza dell’appello della lista di chiamata, per usare la sua espressione, il cardinal Martini aveva voluto parlare ancor più a fondo di sé, fino a una confidenza personalissima: «Io ho spesso rimproverato al Signore questo in passato – aveva sussurrato –. Gli dicevo: perché Tu che sei morto hai lasciato a noi la necessità di morire? Potevi morire Tu e poi dire: “Basta, passiamo tutti sul Ponte d’oro verso…”. Ma poi ho capito. Ho capito che se non fosse così non avrei mai l’occasione di fare un atto di completo abbandono a Dio. Perché in tutte le altre forme di fiducia c’è sempre una uscita di sicurezza. Invece qui non c’è e si può solo abbandonarsi completamente al Padre, nelle Sue mani, e credere nella Resurrezione di Gesù. La morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo a occhi chiusi, alla cieca, mettendoci totalmente nelle sue mani».

Ora ricordo un’altra giornata trascorsa con lui, una visita al carcere di San Vittore. Avrei voluto avere il tempo di portargli le lettere di Antonio Simone, magari soprattutto quella in cui aiuta un altro detenuto a scrivere alla sua ragazza, e ne vengono fuori tre righe: «Scusa, sono un pirla, ti amo». Mi è sembrata, sia pur nella crudezza dell’aggettivo, una formula straordinaria di confessione: “Scusa”, la richiesta di una grande Misericordia; “sono un pirla”, la consapevolezza del proprio essere nulla; “ti amo”, il riconoscimento di un grande Amore, di un affetto che dà consistenza alla vita. Chissà come avrebbe reagito padre Martini. Non c’è stato il tempo. Resta invece la memoria di quell’ultima giornata e del suo saluto, forse un po’ profetico. Si era alzato a fatica mormorando: «Quel ponte d’oro… Il difficile è avviarsi, poi si va!».

E lo avevo visto incamminarsi nel lungo corridoio dove dalle finestre il sole d’autunno lanciava grandi chiazze di luce sul pavimento.

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