Quegli intellettuali islamici che minano l’Indonesia

“A Timor Est si è voluta colpire la Chiesa cattolica per la sua opera di mediazione e pacificazione nell’isola. C’è un piano di islamizzazione del territorio e intellettuali vicini al presidente che soffiano sul fuoco. Ma non consiglio a nessuno di mettersi in rotta di collisione con noi cristiani”. Parola del fondatore dell’università di Giakarta, amico personale del Papa e personalità cattolica di maggior spicco nella società indonesiana

Parlamentare, pluriministro, consigliere di tutti i Presidenti fino ad oggi ed industriale di successo: da più di 40 anni l’economista indonesiano Franz Seda ha sempre avuto le orecchie dei potenti del più grande paese islamico del mondo. Niente di strano, se questa eminenza grigia nei gangli della politica indonesiana non fosse anche uno dei capi della comunità cattolica. Se la fede cattolica si sta difendendo egregiamente in Indonesia è anche grazie al suo operato incessante. Per questo il fondatore della prestigiosa “Admajaya Catholic University” nel centro di Giakarta, che ha conosciuto personalmente tutti i Papi degli ultimi 50 anni, è stato insignito dal Vaticano con la Croce di San Silvestro. Quando Tempi ha avuto la possibilità di incontrarlo nella sua casa a Giakarta, Franz Seda era solo. Sua moglie e la figlia erano a Timor per distribuire aiuti umanitari ai profughi.

A Timor Est le milizie hanno bruciato le chiese e massacrato preti e suore. Oltre a una repressione contro l’indipendentismo è stata anche guerra religiosa?

Sono rimasto scioccato da quelle immagini. L’attacco ai luoghi di culto e ai fedeli cattolici non ha mai fatto parte della cultura timorese. Non credo però al fattore religioso in questo conflitto. Se mai la violenza contro la Chiesa è stata organizzata dall’esterno della società timorese e con obbiettivi ben diversi.

Che sarebbero?

Gli indipendentisti hanno i loro leaders, con Xanana Gusmao e Jose Ramos Horta. Le milizie pro-indonesiane seguono uomini come Eurico Guiterres. Ciò che manca a Timor Est è una figura o una istituzione integrativa nella quale tutti i Timoresi possano riconoscersi. Questa forza potrebbe essere la Chiesa Cattolica.Temo quindi che gli attacchi mirassero a distruggere l’unica via di pacificazione.

Timor non è però l’unica regione indonesiana dove i cristiani sono perseguitati dalla maggioranza islamica. Davvero non c’è un conflitto religioso nel suo Paese?

Il discorso puramente numerico è troppo semplicistico. È vero che l’87% su un totale di 200 milioni di Indonesiani sono musulmani, ma vi sono anche circa 15 milioni di cristiani e 7 milioni di buddisti. Più importante del fattore numerico in se stesso inoltre mi sembra la distribuzione geografica di questi gruppi. Le regioni dell’Est dell’Indonesia, ad esempio, sono a maggioranza cristiana e anche l’80% dei Dayak, sull’isola di Borneo, sono cattolici. I musulmani sono concentrati sull’isola di Giava e al nord di Sumatra ma anche là occorre distinguere. La versione gentile dell’islam giavanese non ha niente da spartire con l’islam di matrice araba e quindi più radicale di Sumatra. L’islam indonesiano non è unito, non è monolitico. Anche per questo il fondamentalismo, almeno finora, non ha attecchito.

Nessun problema, quindi?

Ci sono certamente sentimenti anti-cristiani fra la popolazione. Abbiamo per esempio delle difficoltà nel costruire nuove chiese perché occorre il permesso del quartiere, che generalmente non riusciamo ad ottenere laddove la maggioranza è musulmana. Un’altra delle nostre preoccupazioni è la conversione obbligata per chiunque voglia sposare un musulmano. È un problema più frequente nelle grandi città ed è inoltre un problema pratico della vita quotidiana. A livello politico invece non vedo problemi.

Fra il divieto di costruire una chiesa e i massacri di Timor Est e di Ambon c’è una bella differenza…

Devo ammettere che le difficoltà crescono. C’è un risveglio islamico in Indonesia. Ancora pochi anni fa si potevano trovare delle famiglie multi-religiose, un fenomeno che sta diventando sempre più raro, ma io non sono preoccupato.

Si spieghi meglio…

Noi cattolici siamo uniti. Dopo la Messa celebrata all’aperto dal Papa, durante la sua visita in Indonesia nell’89, ho ricevuto tante telefonate dai musulmani. Erano quasi in lacrime perché noi abbiamo una guida spirituale forte, e loro no.

Lei vuole dire che i musulmani ci invidiano il Papa?

Io conosco personalmente il Papa. Il punto dove si era seduto nella nostra università è diventato luogo di culto perché noi lo consideriamo un santo. È un uomo dai forti valori, che tutti ci riconoscono. Uno dei nostri punti di forza in Indonesia sono le scuole e le università cattoliche, e lo sono solo perché offriamo una qualità di educazione migliore e diffondiamo dei valori che sono per tutti attraenti. E poi… Ma sì, saremo anche pochi qui, ma non consiglio a nessuno di mettersi in rotta di collisione con noi cristiani.

A chi è indirizzato questo ammonimento?

C’è un piccolo gruppo di intellettuali islamici che lavora per una distribuzione più omogenea della loro religione in tutte le regioni del paese. È politica governativa da anni di trasferire elementi musulmani giavanesi nel Borneo ed ad Ambon, regioni che erano prevalentemente cristiane. È questa politica che sta provocando i sanguinosi conflitti di questi ultimi mesi.

Quanta influenza ha questo gruppo sulla politica?

Alcuni di loro sono consiglieri politici del presidente Habibie. Sono loro che a marzo di quest’anno lo hanno spinto ad offrire il referendum a Timor Est, laddove prima l’offerta era quella di un’ampia autonomia. È stata una mossa affrettata dalle pericolose conseguenze.

Perché? A parte il bagno di sangue loro hanno perso Timor Est, qualcosa di facilmente prevedibile…

Certo. Ma loro preferivano perdere Timor Est piuttosto di trovarsi con un’altra zona cattolica e per di più autonoma nell’Est Indonesia.

Perché allora il Presidente è caduto in questa trappola?

Io chiamo Habibie “l’instant President”. Prende decisioni importanti all’istante senza pensare alle conseguenze. Non è mai diventato un vero uomo politico.

Il risultato è che a Timor Est l’Indonesia davanti al mondo ha perso la faccia…

L’Indonesia è il paese più nazionalista del Sud-Est Asiatico. Questo si spiega non solo con la nostra storia di ex-colonia, ma anche con la necessità, sopravvenuta dopo l’indipendenza, di creare un collante ideologico che potesse tenere insieme questo paese cosi vasto e diverso. Quello che i nostri politici non hanno capito è che il mondo sta cambiando. I nazionalismi perdono la loro importanza. È cominciata l’era dei diritti umani.

E in questo campo l’Indonesia ha dimostrato i suoi limiti?

Teoricamente no, praticamente sì. Il secondo dei cinque principi della nostra ideologia nazionale, il “Pancasila”, parla espressamente di umanità, giustizia e cultura. Il problema è che il Presidente Suharto era più preoccupato di mantenere l’unità del Paese con ogni mezzo, e ha dimenticato quindi la base umanitaria del Pancasila. Adesso, e lo dico come cattolico e come indonesiano, non possiamo più aspettare.

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