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Bankitalia? Una Banca privata controllata dagli stessi istituti di credito che dovrebbe controllare. Intervista al principe Lillio Sforza Ruspoli

La Banca d’Italia ha dato, nella sua storia secolare, un contributo fondamentale alla stabilità e al progresso della nostra economia» (Antonio Fazio)
All’udire queste parole un sorriso attraversa il viso del principe Lillio Sforza Ruspoli. Secondo lui, infatti, la Banca d’Italia «non è affatto un’istituzione, ma una banca privata. Tutti sanno che le tre grandi banche miste (Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma), controllate dall’Iri, possedevano il 66% della Banca d’Italia. Poi c’è stata la cosiddetta privatizzazione delle banche e oggi, 3 – 4 banche private hanno la maggioranza della Banca d’Italia. In poche parole le banche controllano la società che dovrebbe controllarle. Da qui nasce la casta di quei banchieri che tolgono ai poveri per dare ai ricchi. Purtroppo le segreterie di quasi tutti i partiti politici aiutano questo sistema nell’illusione di mantenere privilegi, di non farsi ricattare e di mantenere in questa corrotta e fragile stabilità il potere».
A Roma è un freddo sabato mattina di gennaio e il principe ci riceve volentieri perché ha molto da raccontare. In particolare tiene molto al fatto che un giornale racconti la verità dei fatti. «La maggioranza dei giornali – ci dice – è nelle mani dei gruppi insolventi e la verità che questi giornali raccontano al popolo è la verità che, chi paga, desidera far conoscere. Chi si oppone a questo sistema viene emarginato».
Non è un caso poi che la sua verità sia anche suffragata dai dati. Lo scorso anno, infatti, un dossier di Ricerche & Studi di Mediobanca è riuscito a ricostruire gran parte dell’azionariato della Banca d’Italia dimostrando che la nostra massima istituzione finanziaria è effettivamente “controllata” da quattro dei maggiori gruppi bancari italiani.

Critica al “miracolo italiano”
La storia di questo nobile romano è particolarmente curiosa. Già agli inizi degli anni ’60, il principe Sforza Ruspoli, si segnalava come il leader dei centri di azione agraria, movimento cattolico, apartitico, indipendente che si opponeva al modello di sviluppo promosso da Valletta e Pirelli con la “complicità” di Paolo Bonomi. «Tutto quello che avviene oggi nel paese – ci spiega il principe – è conseguenza di un modello di sviluppo imposto negli anni Cinquanta. A quei tempi Paolo Bonomi, completamente asservito ai potenti monopoli pubblici e privati, cercava di trasformare gli agricoltori in un esercito di operai o di pensionati».
Il principe, a capo dei centri di azione agraria, si oppose a quel modello perché fermamente convinto della necessità di «privilegiare l’agricoltura, la piccola e media impresa, l’artigianato e il turismo» e, soprattutto, «la creazione di scuole e ospedali».
La storia ci insegna che quella battaglia non fu mai vinta e, al contrario, l’Italia cominciò a potenziare ed ingigantire le proprie industrie.
In questo periodo di “gigantismo industriale” diretto, ne è convinto il principe, da «capitalisti senza capitali alleati direttamente o indirettamente con il sindacato», fanno la loro apparizione le tre banche miste, controllate dall’Iri, attraverso cui transitava il flusso di denaro diretto a Mediobanca che, è sempre il principe a parlare, «utilizzava i soldi degli italiani investendo in quelle industrie dell’acciaio, della chimica e dall’auto che dopo pochi anni cominciarono a perdere denaro».
Fanno ormai parte della nostra storia le immagini degli italiani che, in quegli anni, abbandonarono i propri paesi per trasferirsi nel triangolo industriale (Milano – Torino – Genova) e trasformarsi “in nuovi schiavi alle catene di montaggio”. «Chi non ce la faceva – continua il principe – si trasferiva nelle terribili e disumane periferie dei grandi capoluoghi del centro – sud». Ma la situazione era fin troppo evidente, da un lato non si produceva più ricchezza e dall’altra cominciavano ad ingrossarsi le fila dei nuovi poveri.
«I governi di allora – commenta il principe – per superare le crisi ricorrenti svalutavano la lira, impoverendo sempre di più gli italiani, nel tentativo di favorire le esportazioni di quei gruppi che, non potendo competere sui mercati dei grandi paesi industrializzati, vendevano prodotti industriali ai paesi poveri in cambio di prodotti alimentari. Questi prodotti arrivati sul mercato italiano, deprimevano ancora di più la nostra disastrata agricoltura creando nuovi esodi e nuovi disagi. I risultati di quelle svalutazioni sono l’indebitamento progressivo di 3 – 4 generazioni di italiani. Per fortuna ci siamo agganciati all’euro altrimenti avremmo fatto la fine dell’Argentina. Ma agganciandoci all’euro è venuta a galla la nostra reale situazione».

Un crac dietro l’altro: il caso Cassa di Risparmio di Roma
Si arriva così ai giorni nostri e il principe Sforza Ruspoli non si lascia sfuggire l’occasione di commentare il caso Parmalat. «Mi sembra che si stia cercando di ricondurre il fallimento Parmalat al fatto che Calisto Tanzi è un grande truffatore ed ha imbrogliato tutti. Io credo che questa sia una distorsione della realtà perché Parmalat è, speriamo, l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prima di questo fallimento non possiamo non ricordare quanto hanno pagato gli italiani per l’Ilva, per il fallimento Ursini, per Sindona e il Banco Ambrosiano, per il Banco di Napoli, la Banca di Sicilia, l’Efim, la Federconsorzi, la Sir di Rovelli e la Montedison di Gardini. Il fallimento di tutti questi gruppi ha creato voragini spaventose e molte decine di finanziarie sono state bruciate da questi fallimenti. I “boiardi” che hanno ottenuto questi risultati guadagnavano stipendi miliardari e, in gran parte, continuano ancora oggi ad avere posti di responsabilità. Complici principali di tutto ciò sono la degenerazione del sistema politico, ma soprattutto il sistema bancario».
Ed ecco allora che i nodi vengono al pettine. Sì perché il principe Sforza Ruspoli, oltre ad essere un difensore dei diritti degli agricoltori e delle piccole e medie imprese è anche uno dei soci della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma che oggi detiene il 7,19% di Capitalia. «La situazione vissuta dalla Cassa di Risparmio di Roma – ci dice il principe – è un esempio tipico di quel sistema bancario che toglie ai poveri per dare ai ricchi. La Cassa di Risparmio, infatti, fu costituita dall’aristocrazia papalina nel 1836 per combattere l’usura a Roma. Era una società non profit. I dividendi, infatti, venivano distribuiti ai poveri della città. Era una banca di dimensioni regionali che, contrariamente a quello che hanno raccontato, aveva dei bilanci sani. Ad un certo punto ai vertici di questa banca furono nominati il prof. Pellegrino Capaldo e Cesare Geronzi. Purtroppo i soci, inavvertitamente e inconsapevolmente, dettero a questi vertici molti poteri».
Capaldo & Geronzi, infatti, nominavano il Cda e avevano tutto il potere decisionale e cominciarono a dire che, dovendo fronteggiare la concorrenza delle banche estere, la banca doveva cominciare un processo di ingigantimento. Per questo la Cassa di Risparmio comprò il Banco di Sicilia, la Banca di Roma, il Banco di Santo Spirito ecc. «Personalmente mi opposi duramente a questo modo di agire perché, più che fusioni, vedevo che si stava mettendo in moto una politica di salvataggi di banche che erano affondate per una gestione politica. Inoltre tutto questo veniva fatto utilizzando la cassa delle elemosine».
E la Banca d’Italia? «Ricordo che accadde un fatto che mi impressionò molto. Una banca tedesca chiese di acquistare delle azioni della Banca di Roma, ma la Banca d’Italia non glielo consentì. La spiegazione che mi sono sempre dato è che i tedeschi avrebbero sicuramente scavato nei conti della Banca di Roma e probabilmente avrebbero punito e cacciato un management che non era stato capace di portare risultati finanziari. Ma nessuno voleva e vuole rimuovere quei manager perché hanno salvato tante situazioni e ne hanno coperte chissà quante altre. Rifiutata questa offerta si chiese al colonnello Gheddafi di acquistare una partecipazione nella banca, partecipazione che detiene ancora oggi. Forse Gheddafi non ha mai sollevato problemi sul management».
Ma il racconto non termina qui. «Un giorno il prof. Capaldo decise di dimettersi e, prima di andarsene, dichiarò in assemblea che la Banca aveva avuto un’ispezione da parte della Banca d’Italia che aveva trovato tutto in regola al punto da autorizzare l’acquisto della Banca dell’Agricoltura (un altro buco incredibile). Dopo 6 mesi da quella dichiarazione venne alla luce un buco di 12mila miliardi di lire. Io allora domandai come, in sei mesi, poteva essersi realizzato questo buco. O l’ispezione non era stata sufficientemente accurata o i manager avevano creato un buco di 12mila miliardi e quindi dovevano dimettersi. In quell’occasione la Fondazione Cassa di Risparmio di Roma fu costretta a pagare migliaia di miliardi perdendo la partecipazione di maggioranza».
E arriviamo ai giorni nostri. «Come socio della Fondazione ho chiesto che venga sporta denuncia nei confronti dei vertici della banca riguardo alle ultime vicende. Infatti non capisco perché la banca abbia deciso di rimborsare i bond che aveva emesso. Se infatti i manager non sono colpevoli perché la banca dovrebbe ricomprare i bond? Se invece hanno delle responsabilità e devono pagare per evitare che si scopra quello che c’è sotto, allora devono andarsene subito. Comunque la cosa che mi indigna maggiormente è il fatto che la città di Roma abbia perso un’istituzione che da sempre si è occupata di situazioni di indigenza e mi disgusta che gruppi politici di centro, di destra e di sinistra, continuino ad appoggiare gli autori di questo saccheggio».
Quindi la premiata ditta Fazio & Geronzi si salverà? «Ero in Brasile quando ho appreso la notizia del crac Parmalat e mi sono detto: gli italiani perderanno altri miliardi, ma finalmente si libereranno della casta, di questo mostro. Oggi vedendo il clima del paese credo che la scelta sia quella di portare avanti questa cancrena. Bisogna vedere quanto resisterà la pazienza dei risparmiatori».

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