Pecorella: «L’Ilva non può pensare che sia lo Stato a dover pagare la sua messa in regola»

Gaetano Pecorella, presidente della commissione d'inchiesta sui rifiuti che ha indagato sull'Ilva: «Il problema dei posti di lavoro esiste, ma per anni l'azienda ha trovato il modo di non adeguare gli impianti»

La commissione bicamerale d’inchiesta sui rifiuti lo scorso 20 giugno, prima dunque del decreto del Gip di Taranto Todisco, ha pubblicato una dettagliata relazione (firmata all’unanimità) sulla Puglia, dedicando un intero capitolo al caso Ilva. Si tratta del frutto di audizioni e acquisizioni di atti (comprese le perizie mediche e chimiche disposte dal Gip di Taranto, nel contraddittorio con le parti, che hanno rivelato gli effetti dell’inquinamento ambientale), e di visite ispettive in Puglia della stessa commissione, iniziate nel settembre 2010. Gaetano Pecorella (deputato Pdl), il presidente della commissione, spiega a tempi.it: «L’Ilva per anni ha trovato modo di non mettersi in regola e di non spendere per adeguare gli impianti. Lavora come tutto il capitalismo italiano, nella logica che quando c’è da guadagnare si intasca, quando c’è da spendere si scarica sulla collettività». Oggi, secondo Pecorella e la commissione, «il problema dei 15 mila posti di lavoro a rischio c’è, eccome. Ma in questa vicenda non può passare il principio che per mettersi in regola sia lo Stato a pagare. Credo che l’indicazione del Riesame con l’interruzione della produzione come estrema ratio sia corretta. Bisogna però tenere il fiato sul collo all’Ilva perché tutto non passi sotto silenzio».

La relazione della commissione sull’Ilva conclude che «ci si trova di fronte ad un’area altamente inquinata per ragioni allo stato non riconducibili univocamente a questo o a quell’altro fattore rispetto alle quali risultano del tutto carenti le attività di bonifica o di messa in sicurezza a tutela dell’ambiente e della salute umana». Che impressione si è fatto di questa vicenda, in base alle ispezioni, alle audizioni e ai documenti analizzati?
La prima cosa che mi ha colpito di questo lavoro è stata l’ispezione all’Ilva fatta dalla commissione a settembre 2010. Tralascio l’accoglienza cordiale che abbiamo ricevuto, di cui ora capisco davvero il senso. Ci fecero vedere delle casette che avevano costruito, un esempio di interventi positivi, e ci portarono in giro per lo stabilimento. Ma quando abbiamo chiesto dove nascondessero i rifiuti pericolosi (perché il vero problema dell’Ilva è quello delle discariche occulte, che ci sono dai tempi dell’Italsider e di cui ci erano pervenute delle segnalazioni precise) l’azienda ricondusse la responsabilità a chi c’era prima, cioè lo Stato. Questo malgrado fin dal 2010, e fino ad oggi, tra quei rifiuti ci siano state polveri che contengono diossina. La seconda cosa che mi ha colpito è stato il caso degli ovini abbattuti a Taranto (tra il 2008 e il 2011 2.271 capi di bestiame, ndr) perché sono state ritrovate tracce di diossina e Pcb dopo che avevano pascolato in terreni più o meno vicini all’Ilva, e contaminati da polveri che i periti riconducono con ragionevole certezza allo stabilimento. Chiedemmo notizie al riguardo. Ci risposero che la diossina era presente nell’erba come conseguenza di Chernobyl. Non c’è stata dall’Ilva nessuna ammissione di un malfunzionamento. La commissione questo lo ha denunciato, perché certamente a nostro avviso c’è al contrario una responsabilità dell’Ilva. Anche se può esserci la concorrenza di altri fattori esterni, le sostanze inquinanti provengono sicuramente dal ciclo produttivo dell’Ilva, questo è un dato individuabile in tutte le perizie.

La relazione della commissione evidenzia anche che in questa vicenda «altrettanto carenti e non coordinati risultano i controlli istituzionali da parte degli enti centrali o locali». Che cosa è accaduto?
La carenza dei controlli è una conseguenza logica del fatto che questa produzione inquinante va avanti da molti anni. Non c’è stato alcun intervento delle istituzioni, e nemmeno a fronte di processi con condanne definitive come quelle riportate dai Riva. La stessa magistratura si è decisa ad intervenire solo ora. Ad esempio, l’Arpa pugliese spiegò che fino al 2008 «non aveva né la possibilità di effettuare misurazioni particolarmente complesse come quelle delle diossine nelle emissioni o nell’ambiente, né aveva un laboratorio sufficientemente attrezzato per effettuare questo tipo di misurazioni». Un registro dei tumori che iniziava a studiare le incidenze degli inquinanti sulla diffusione dei tumori, aperto nel 2001, rimase poi chiuso per anni. L’istituto nazionale di sanità, cui l’Arpa Puglia aveva chiesto di esprimere un parere sull’inquinamento da berillio e pcb nel quartiere Tamburi (nei pressi dell’Ilva, ndr), si è limitata a scrivere 3 pagine scarse, con osservazioni basate sulle osservazioni dell’Arpa. Meraviglia che l’istituto non abbia svolto direttamente le indagini che gli competono. Eppure nessuno, né Arpa né altri, hanno denunciato la carenza di mezzi o altro fino ad oggi.

Perché?
C’è stata a Taranto una sorta di connivenza da parte di tutte le istituzioni, e questo lo dico a prescindere dai fenomeni di corruzione in corso di accertamento dalla magistratura. Una connivenza forse anche per la stessa paura che vediamo diffondersi oggi, per la chiusura dello stabilimento e la perdita conseguente di tanti posti di lavoro.

In commissione c’è stata anche l’audizione del presidente Ilva Bruno Ferrante, il quale ha motivato quello che è accaduto parlando di incomprensioni con l’autorità giudiziaria. Secondo Ferrante, inoltre, l’Ilva ha fatto negli anni considerevoli investimenti per l’ambiente, un miliardo di euro dal 1995. Che cosa ne pensa lei?
Io non credo che ci siano state incomprensioni. L’Ilva per anni e anni ha trovato il modo di non mettersi in regola e di non spendere, tanto che nel 2008, semmai, c’è stato una riduzione degli investimenti per le bonifiche ambientali. Il miliardo di euro dal ’95, di cui ha parlato Ferrante, è poca cosa per adeguare gli impianti: basta dividere quella cifra per i 17 anni trascorsi per capirlo. La conseguenza è che oggi l’Ilva dovrà affrontare investimenti ingenti per adeguarsi, anche perché gli impianti sono obsoleti. Inoltre, se in questi anni la magistratura ha accertato che ci sono stati i danni alla salute evidenziati da alcune perizie, evidentemente non è vero quello che dice Ferrante, che il problema è stata solo di una contrapposizione con le autorità.

Si riferisce alla perizia medica sulle morti e i tumori nel quartiere Tamburi?
Sì. Ho letto la consulenza consegnata ai magistrati. Tra il 2004 e il 2010 ci sono stati 91 decessi e 379 ricoveri, solo in questi quartieri, attribuibili alle emissioni degli impianti industriali. Per i periti, il numero dei decessi in quei quartieri è superiore al 70 per cento rispetto alla media cittadina. Inoltre i periti hanno condotto uno studio sul periodo tra il ’98 e il 2010 e stimato 386 decessi totali, 237 ricoveri per tumori maligni, 937 per malattie respiratorie tutto questo in gran parte in relazione ai bambini, con 48 casi di ricoveri pediatrici all’anno. La commissione ha visitato i quartieri Borgo e Tamburi: ricordo bene le facciate delle case tutte rosse, per le emissioni pesanti. Ho letto una grande stupidata sui giornali, l’idea di trasferire i residenti da Tamburi. Non scherziamo. La diossina per altro si infiltra anche nelle falde acquifere e quindi è un problema a più ampio raggio. La commissione pensa che non si possa consentire oltre qualsiasi tipo di attività che possa essere dannosa alla salute delle persone. Questa è una cosa su cui non si può transigere: se l’attività è dannosa, quindi è un reato, non si può andare avanti.

Ma 15 mila disoccupati sono un altro problema grave.
Credo che l’indicazione del Riesame che vede l’interruzione della produzione come estrema ratio sia corretta. Bisogna spingere l’Ilva a mettere in regola lo stabilimento lasciandolo aperto. Ma se l’azienda non vuole farlo, la seconda fase dev’essere la chiusura. Il problema è che l’Ilva lavora come tutto il capitalismo italiano che quando c’è da guadagnare si intasca, quando c’è da spendere si scarica sulla collettività. Il problema dei 15 mila posti di lavoro c’è eccome, ma non può più passare il principio che per mettersi in regola sia lo Stato a pagare. Adesso la strategia che l’azienda segue, come molte altre volte in passato, è quella di “parare i colpi” finché c’è attenzione sul problema, nella speranza che poi tutto riprenderà come prima. Questo è accaduto anche a fronte delle condanne dei Riva passate in giudicato. Bene, invece non si può andare avanti così. So che il ministro Clini è molto vigile su questo, ma adesso non deve venire meno la vigilanza da parte del Noe, dell’Arpa e della Regione. Serve il fiato sul collo.

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