Pavloviano riflesso anti Putin

Basta essere contro lo “Zar” per essere campioni di democrazia? La biografia di Navalny e le bombe di San Pietroburgo raccontano un’altra storia

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Molto si poteva immaginare sulle sorti del povero Denis Voronenkov, un russo del sottosuolo cresciuto al tempo di Eltsin e passato con il tempo dalla Duma agli affari della malavita, anche se, in casi come il suo, è difficile capire che cosa venga prima. Studi severi sui sistemi di potere, carriera brillante alla procura di Mosca, poi i problemi con la legge: una storia di tangenti, la rissa in un club con un ufficiale dei servizi segreti, infine l’accusa di avere ordinato un omicidio. Le voci su un arresto sono sempre più insistenti, il mandato in Parlamento è quasi scaduto e la fiducia del partito scende. Così Voronenkov decide di fuggire, trova riparo in Ucraina e dice in un’intervista di essere pronto a parlare: nessuno, però, mostra grande interesse per le sue denunce. Per questo è giusto ritenere che si potesse immaginare molto sulle sorti di Voronenkov, quasi tutto a dire il vero, fuorché vederlo accanto alle icone della lotta contro il Cremlino.

Eppure ha rischiato seriamente di riuscirci, ma non è certo sia dipeso esattamente dalla sua di volontà. È accaduto a fine marzo, a Kiev, strada Taras Shevchenko, viale gobbo e pulito che divide in due la città: da una parte la stazione ferroviaria, dall’altra la Piazza Indipendenza. Un uomo con passo deciso avvicina Voronenkov all’uscita dell’Hotel Majestic, gli cammina accanto, probabilmente domanda qualcosa, impugna una pistola e un attimo dopo ferisce la guardia del corpo. Voronenkov rimane fermo, non sa che fare, non cerca neppure di correre via. Allora quello lo centra alla fronte almeno due volte, forse tre, una di sicuro mentre è già sdraiato a terra. È una questione di minuti e la stampa già strimpella: ucciso a Kiev un critico del presidente russo Vladimir Putin; è un omicidio su commissione; pensava di essere fra gli obiettivi del Cremlino. Insomma, morte e redenzione, tutto in meno di mezz’ora, attraverso i social network.

Ma ci sono buoni motivi per credere che l’atroce fine di Voronenkov, quel russo del sottosuolo scappato da Mosca per evitare la galera, dipenda da ragioni che potremmo definire “laterali”. L’assassino, un tale di nome Pavel Parshov, aveva appena 24 anni. Si dice “aveva” perché è morto durante l’agguato, ucciso dalla guardia del corpo, che è riuscita a sollevarsi nonostante un proiettile nel ventre, ha preso la mira e lo ha colpito alle spalle. Non era un killer professionista, era un giovane ucraino conosciuto dalla polizia, un latitante ricercato per truffa, il che non gli ha impedito di prestare servizio nella Guardia nazionale, il corpo formato dal ministero dell’Interno per combattere i separatisti nelle province del Donbass. Parshov conosceva Vorononkov? I due erano soci in qualche affare? La polizia di Kiev non sembra disposta a scostarsi dalla versione dei quotidiani europei: la peste russa ha appena fatto un nuovo martire.

L’attentato terroristico alla metro di San Pietroburgo

Lo sdegno dei commentatori
Una strana foga guida la caccia dei nostri giornali agli oppositori, come fossero talenti da arruolare e rilanciare. È una ricerca appassionata che diventa spesso ambigua: nessuna domanda sulla vita di Aleksandr Litvinenko, che pure è stato per anni nei ranghi del Kgb; nessun dubbio sulle ragioni di Mikhail Khodorkovsky, che ha messo insieme una fortuna sconfinata nell’industria del petrolio. Litvinenko è trattato come un martire (è morto a Londra nel 2006 avvelenato dal polonio); Khodorkhovsky ha la fama del dissidente (vive in Svizzera, dopo avere scontato una decina d’anni in carcere). Brodsky e Dovlatov non sono mai sembrati tanto lontani. E così pure Solzenicyn, che è stato un patriota del libero pensiero e un martire del Gulag all’epoca di Stalin, dimenticato dopo una foto con Putin e una intervista in cui diceva: «Sta ricostruendo lentamente il nostro paese».

Così l’eroe del nostro tempo è Aleksey Navalny, un politico senza partito che denuncia sul suo blog il sistema dei corrotti. L’ennesimo arresto, a Mosca, dieci giorni fa, durante un corteo, ha sollevato commenti colmi di sdegno anche in Italia. «L’ultima volta che lo abbiamo incontrato ci ha fatto vedere la valigia che tiene sempre pronta per il carcere», ha detto Ezio Mauro in un video sul sito di Repubblica. «L’Europa migliore è con lei caro Navalny e con la grande Russia dei valori», ha scritto Gianni Riotta sul suo profilo Twitter. Il problema è che Navalny pare abbastanza distante dall’Europa, anche da quella “migliore”. È vero, le sue campagne contro il Cremlino infiammano ogni volta la stampa straniera. Del partito Russia Unita dice: «Sono ladri e truffatori» (“zhulikov y vorov”, parole divenute estremamente popolari); a Putin chiede di lasciare il potere in cambio dell’immunità.

L’arresto di Alexei Navalny, oppositore del presidente Putin

Questo non vuol dire che abbia posizioni moderate nella politica interna e concilianti in quella estera. Navalny ha sostenuto con fermezza l’intervento militare in Georgia (chiamava i vicini gryzuni, che significa “roditori”, anziché gruziny, “georgiani”). È stato duro con gli immigrati («se non esiste un sistema legale per risolvere il problema, ognuno farà a modo suo, anche attraverso misure primitive e disperate», ha detto anni fa, dopo alcuni episodi di violenza). E nel corso della crisi in Ucraina ha preso posto molto vicino a Putin («la Crimea resterà russa, tutti dovrebbero farsene una ragione: non è un panino con la pancetta che si prende e poi si rende», si è lasciato andare parlando alla Radio Ekho Moskvy). È un nazionalista, appartiene alla corrente politica che in qualsiasi paese europeo sarebbe chiamata populismo, oppure destra alternativa, secondo la moda del momento.

Che cosa spinge, allora, quotidiani e giornalisti che combattono il populismo in Italia a sostenere un paladino di quel mondo in Russia? La prima ragione viene da un calcolo sbagliato: alcuni pensano che Navalny possa davvero contendere a Putin la guida del paese. In realtà i russi non hanno mai mostrato grande fiducia nei suoi confronti. Nel 2013 ha sfidato Sergey Sobyanin alle elezioni per il governo di Mosca. Sobyanin è un uomo di potere, un amministratore esperto, ma in quanto a carisma potrebbe giocarsela soltanto con la salma di Lenin. Eppure ha vinto al primo turno, 51 per cento contro 27, nella città con il bacino elettorale più favorevole al profilo del blogger.

Chi combatte la corruzione
La seconda ragione è più delicata. Navalny muove un meccanismo che la grande stampa conosce a meraviglia: punta sulla corruzione, che è diventata il male estremo dell’epoca moderna, la chiave usata per rovesciare una decina di governi dalla Libia all’Ucraina, passando attraverso la rivolta in Egitto. La corruzione esiste in Russia, esiste eccome, striscia fra gli affari delle compagnie di Stato, allunga il patrimonio messo insieme in poco tempo da ministri e deputati, s’avverte negli abiti dei ricchi figli di Mosca, nei mille rubli che il manazher di turno allunga a un poliziotto perché sorvegli l’auto appena parcheggiata all’ingresso del Bolshoy. Si dice ruka ruku moet, significa «una mano lava l’altra»: è una sbronza collettiva che la Russia dovrebbe superare presto. Navalny l’ha capito per primo e ne ha fatto un programma politico, ma questo non vuol dire che sia il solo impegnato nella lotta.

Basta sfogliare i quotidiani. Pochi giorni fa l’Autorità di garanzia sui depositi bancari ha venduto una villa lussuosa nelle campagne britanniche appartenuta a Sergey Pugachev, finanziere processato a Londra e riparato a Nizza con passaporto francese. Sabato scorso un tribunale a Rostov ha condannato a cinque anni di prigione un colonnello della polizia che aveva intascato mazzette. A San Pietroburgo rischia l’arresto il vicedirettore dell’Ermitazh, che avrebbe tenuto per sé 50 mila euro destinati a lavori dentro il museo. A ben vedere, quello della corruzione non è neppure il problema più grande per una città costretta al lutto dopo gli ordigni esplosi lunedì nei vagoni della metro. Ma non sono le vittime di quell’attacco i martiri giusti per la stampa straniera.

Foto Ansa

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