Paolo Di Canio, una vita estrema. Buio e luna piena. Ritratto di un Mourinho all’italiana

Da allenatore del Sunderland ha detto ai giocatori che gli chiedevano un giorno di riposo per alleggerire la pressione: «Ma quale pressione? Mica lavorate in miniera»

«Sei l’amore della mia vita/ ti farei sbattere mia moglie/ anch’io voglio sporcarmi le ginocchia» (coro dei tifosi del Sunderland). Quando si è seduto in panchina, Paolo Di Canio ha provocato le dimissioni di David Miliband, ex parlamentare e leader laburista che non sta neppure più in Inghilterra (dopo il fallimento politico è andato in America a dirigere una Ong) ma manteneva ancora, da fan, la carica di vicepresidente del club, ma dopo due vittorie in tre partite e la speranza di una salvezza che sembrava ormai perduta, i tifosi dei Black Cats hanno dimenticato i suoi trascorsi politici (motivi della dipartita di Miliband), se mai avevano provocato in loro qualche emozione, e gli cantano questo motivetto dalla curva. Squadra con un grande avvenire dietro le spalle (6 titoli, l’ultimo nel 1936), il Sunderland si è affidato a questo «fascista sì, razzista no». Questo almeno affermò una volta (salvo poi smentire di averlo detto) Paolo Canio, nato romano del Quarticciolo il 9 luglio del 1968.

La sua vita professionale è stata sempre «buio e luna piena», per dirla con il Califfo (una prece). Cioè genio e sregolatezza, slanci e scivolate. In Inghilterra, sua patria d’adozione, da giocatore passa in scioltezza da simbolo dell’eccesso negativo a esempio della più pura sportività. Nello Sheffield Wednesday prende 11 giornate di squalifica per una spinta all’arbitro Paul Allcock; nel West Ham riceve il premio fair play, con tanto di lettera di encomio del colonnello Sepp Blatter: il portiere dell’Everton è a terra, infortunato, e lui, invece di segnare un comodo gol, ferma il gioco per permettere al medico di soccorrere il collega. È così Paolo Di Canio, irruente e generoso. Per terminare la sua carriera nella Lazio, dove ha cominciato, si riduce di tre quarti l’ingaggio. È estremo. Prendere o lasciare. Sicuramente è laziale e di destra. È intelligente e provocatorio. La sua avventura con il pallone è vissuta tra due gesti: la corsa sotto la curva giallorossa dopo il gol decisivo alla Roma il 15 gennaio 1989 (1-0) con il dito indice alzato e il saluto romano regalato alla curva il 6 gennaio 2005 dopo un altro gol alla Roma nel derby, vinto 3-1, come quello del 1989. Siccome si ripete anche con la Juventus, si prende una giornata di squalifica e un’altra missiva di Blatter, questa volta di minacce e improperi. «Il mio non è un gesto politico, non voglio offendere nessuno, non sono mai contro, ma sempre a favore»: insomma più che l’ideologia a muoverlo è il senso di appartenenza, il tifo. E a corroborare questa tesi arriva anche Silvio Berlusconi, che lo ebbe due anni al Milan. «È un bravo ragazzo, non è fascista. Lo fa solo per i tifosi».

«Sono un uomo di famiglia»
Buio e luna piena. Ma un conto è la vita del calciatore, un altro quella dell’allenatore. E un manager (all’inglese) deve avere un certo aplomb, se non in campo, dove puoi anche rotolarti nel fango con il blazer, almeno fuori. Quando sono scoppiate le polemiche per l’ingaggio di un “fascista” al Sunderland, Di Canio si è affrettato a specificare: «Non supporto l’ideologia fascista, sono solo un uomo di famiglia, con valori semplici». Sposato con Elisabetta, due figlie, Ludovica e Lucrezia, Di Canio, da persona intelligente, ha due registri. Uno italiano e uno anglosassone. In Inghilterra le sue manifestazioni “destrorse” si sono limitate a una maglietta dedicata a Fabrizio Quattrocchi rapito e ucciso in Iraq.

In Inghilterra c’è la sua vita. Si sente molto british, ma fuori dal campo, da gioco e da allenamento. Al Sunderland ha portato la rivoluzione (all’italiana). Ha preso (metaforicamente, ma non troppo) a calci nel sedere Adam Johnson (costato 10 milioni di sterline versate al Manchester City), ha riso in faccia ai giocatori che gli chiedevano la conferma del giorno di riposo il mercoledì per alleggerire la pressione. «Ma quale pressione? Mica lavorate in miniera, otto ore a trecento metri sotto terra». È così Paolo Di Canio, prendere o lasciare. Di sicuro un personaggio. Come il Califfo, buio e luna piena. Magari non ti piace, ma di sicuro non ti lascia indifferente.

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