Omero razzista. Le follie della cancel culture

Eliminare l'Odissea dall'insegnamento perché non conforme agli standard odierni è una pazzia tipica della nostra era dominata dal politically corrrect

Caro direttore, è di pochi giorni fa la notizia che in una scuola americana del Massachusetts, la Lawrence High School, la signora Heather Levine (chiamarla professoressa mi mette leggermente a disagio) ha deciso, con ostentata fierezza, di eliminare l’Odissea dal programma di studio dei suoi allievi perché considerata non politically correct e non conforme ai dogmi del progressismo liberale che si concretizza nel concetto: “il razzismo, il sessismo, l’antisemitismo e altre forme di odio sono la norma in questi testi scritti ed è per questo che non vanno insegnati agli alunni”. La cosa, purtroppo, non mi stupisce affatto, cavalcando questo episodio l’onda oceanica della cancel culture che ha ripreso vigore a seguito degli avvenimenti dell’estate scorsa.

Questa fastidiosa (e inutile) censura non può lasciarmi indifferente dal momento che, oltre ad essere un insegnante di lettere, ho condiviso per tutti gli anni della mia formazione il banco con quello stesso Omero a cui oggi viene intimato di uscire dalla classe.

Mi pongo una sola monolitica domanda: Omero (che come “cieco cantore di Chio” forse non è neanche mai esistito) era davvero razzista? No. E se anche fosse, questo ci dà l’autorità di privare le future generazioni di giovani della possibilità di emozionarsi solcando le onde del Mediterraneo insieme ad Odisseo o provando sulla propria pelle il dolore del re Priamo per la morte del figlio Ettore? Ma soprattutto di impedire loro di conoscere le origini di quei valori che sono alla base della cultura occidentale? Ancora una volta la risposta, altrettanto monolitica, è no. Marguerite Yourcenar, in Memorie di Adriano, scrisse che “quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”. Chi ha il coraggio di prendersi la responsabilità di togliere dai programmi scolastici una così grande e invidiabile bellezza?

La pretesa di categorizzare e di attualizzare, cioè di processare il passato – nelle sue molteplici declinazioni filosofiche, artistiche, letterarie, storiche – sul tribunale del presente, oltre che sbagliata è anche assolutamente inutile e priva di senso.

Se c’è qualcosa che la nostra società può imparare dai poemi omerici è proprio il concetto di ospitalità, o, come si suol dire oggi, di accoglienza, valore diametralmente opposto all’atteggiamento razzista. Il Ciclope Polifemo viene punito poiché viola quella che era considerata una legge sacra: l’accoglienza dell’ospite. All’arrivo di Odisseo, infatti, invece che rifocillarlo con benevolenza – come richiedeva l’usanza sacra dei greci – gli rivolge una scortese domanda: “Chi sei?”. La dura critica che Omero rivolge al popolo dei barbari Ciclopi – descritti come “violenti, privi di leggi e incuranti gli uni degli altri” – non ha nulla a che vedere con una discriminazione razziale ma con una constatazione di differenze culturali (perché, mi spiace deludervi, ma le differenze esistono e non fanno venire meno la dignità umana). 

Certo, non si può negare che dietro questa descrizione ci sia la volontà di presentare la cultura greca come migliore: il diritto sacro e la socialità erano suoi fondamenti costitutivi (Aristotele definiva l’uomo come un animale politico, da polis, che vive nella città-comunità) e, dunque, la loro assenza non poteva che essere percepita come un elemento invalidante. D’altro canto, non dovremmo neanche stare qui a spiegare che tutto questo non può essere letto con gli occhi del razzismo di età moderna post-colombiana. 

Tra l’altro, lo stesso termine “barbaro”, che con il passare del tempo ha assunto una connotazione dispregiativa e che, oggigiorno, se forzato, potrebbe tranquillamente rientrare nei canoni del linguaggio razzista, ha un’origine del tutto innocua: “bar-bar” era la trascrizione onomatopeica di una lingua che giungeva indistinta e incomprensibile alle orecchie dei greci prima e dei romani poi.

Questi ultimi, forse ancora più dei greci, erano del tutto alieni dal concetto di razzismo. La grandezza di Roma si fondava proprio sulla mescolanza – oggi diremmo “meticciato” – di popoli diversi: i latini, i sabini e gli etruschi. I nomi delle tre antiche tribù che, secondo la tradizione, furono fondate da Romolo – i Luceres, i Tities e i Ramnes – continuarono a richiamare alla memoria dei cittadini romani le origini miste del loro grande impero.

La romanizzazione dei popoli di volta in volta conquistati non avveniva mai per imposizione forzata, ma sempre e solo per inclusione “osmotica”. Tale inclusione non rimase confinata all’Europa “bianca”, né agli strati più bassi della popolazione, ma si estese fino a raggiungere la più alta carica esistente: il soglio imperiale. Ne è testimonianza, in primis, una delle più importanti dinastie regnanti del III secolo d.C., quella dei Severi, originaria del nord Africa; di lì a poco, gli stessi ruoli di potere politico e militare sarebbero stati ricoperti da quei barbari con cui Roma era entrata prima in conflitto, poi in stretta alleanza. Sant’Agostino stesso, tra i più grandi santi della cristianità, nonché padre della Chiesa, era nordafricano (Tunisia).

Non c’è traccia di razzismo, sempre modernamente parlando, nella storia di Roma. Eppure, anche l’Eneide rischia di subire la stessa amara sorte dell’Odissea: finire all’Indice dei Libri Proibiti. Se i sostenitori della cancel culture realmente conoscessero la genesi del più grande capolavoro della letteratura latina, saprebbero senz’altro che Virgilio era l’alfiere del regime augusteo e, in quanto tale, aveva la missione di esaltare la gloria a cui il suo imperatore aveva portato Roma. È  inevitabile, dunque, e non ci sarebbe neanche bisogno di specificarlo, che l’Eneide, nell’esaltare la funzione civilizzatrice dell’impero romano e la sua conseguente superiorità, non faccia altro che rispondere a delle logiche politiche. Come già per Omero, neanche qui traspare una discriminazione razziale in senso moderno.

Secondo questa visione distorta e pericolosa della cultura, per cui se non è politically correct, è sbagliata e deve essere taciuta, allora il lungo e prezioso lavoro dei monaci amanuensi medievali sarebbe stato del tutto privo di senso. Perché avrebbero dovuto copiare con instancabile costanza le opere della letteratura classica, che per nulla rispondevano alla morale cristiana e ai canoni che essa aveva posto? Semplice, perché ne riconoscevano lo straordinario valore culturale e artistico. Senza il loro sforzo, oggi non potremmo leggere né Omero, né Virgilio, né la poesia erotica di Catullo e Ovidio, né le commedie di Plauto e Terenzio.

Se la coscienza europea, ma ancora di più italiana, arrivasse ad abbracciare la forza distruttiva della cancel culture, allora dovremmo chiudere le scuole e rimarremmo soli e ignoranti nelle nostre camerette, privi del passato, del presente e del futuro. 

Nascondere la storia sotto al tappeto non faciliterà il processo certamente nobile di inclusione culturale, al contrario ne allontanerà inesorabilmente la concretizzazione, perché tale processo passa proprio e in forma privilegiata dalla conoscenza e dalla consapevolezza del percorso della civiltà umana in ogni suo singolo aspetto, bello o brutto, giusto o sbagliato che sia. Studiare il nazismo, il fascismo e il comunismo non implica l’adesione a tali tragiche ideologie, a patto che questo studio ponga come fondamento il pensiero critico, di cui è madre proprio la filosofia greca.

Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? (“Fino a che punto, Catilina, approfitterai della nostra pazienza?”), così Cicerone intimava al sovversivo Catilina di fronte al Senato.

E noi, caro direttore, fino a che punto dovremo sopportare il bavaglio oscurantista della cancel culture?

Foto Ansa

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