Oltre la beneficienza. Il profitto solidale

Danone presenta il suo “Megafono sociale”, un modello di business per trasformare il “dovere” di fare del bene in “valore” (anche economico) per le imprese e la società

L’ad di Danone Italia Fabrizio Gavelli (al centro) con Nico Acampora (alla sua destra) e Elio tra i dipendenti di PizzAut (foto di Giovanni Auletta)

Come recenti casi di cronaca insegnano, a un’azienda (o a un brand) non può bastare fare beneficenza per avere “la coscienza a posto”, né tanto meno si può associare un marchio famoso a una “buona causa” con leggerezza: l’effetto boomerang con conseguente danno di immagine sono un rischio concreto. Nell’epoca in cui a imprese e organizzazioni è chiesto di rispettare i criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance (i cosiddetti Esg), le alternative sono due: farlo perché si deve, per togliersi un problema, o trasformarlo in opportunità.

Martedì 16 aprile Danone Italia ha presentato a Roma, nella sede di Cattaneo Zanetto Pomposo & Co., Il megafono sociale, volume a cura di Maria Cristina Origlia, pubblicato in collaborazione con la Harvard Business Review che racconta «un nuovo modello di creazione del valore». Come spiega a Tempi Fabrizio Gavelli, presidente e amministratore delegato di Danone Italia e Grecia, il tentativo è quello di teorizzare e mettere in pratica il fatto che «le aziende oggi devono generare non solo valore economico ma anche valore sociale».

Prodotto-profitto-solidarietà

Ma come si fa a trasformare il binomio prodotto-profitto nel trinomio prodotto-profitto-solidarietà? Il modello che Danone segue e propone parte da una semplice osservazione: «In Italia si spendono 10 miliardi di euro in pubblicità ogni anno, una grossa percentuale dei quali dalle aziende di beni di largo consumo», dice Gavelli, «se una parte venisse investita per generare sia valore per il brand sia per la società, si potrebbe avere un impatto sociale importante». Non si tratta solo di un modello di awareness per campagne comunicative che generino consapevolezza: «Non basta denunciare, bisogna agire. Non basta dire che c’è l’inverno demografico, bisogna pensare politiche aziendali che favoriscano la genitorialità; non basta far sapere che in Italia un bambino su 77 rientra nel quadro dello spettro autistico, bisogna anche aiutarli».

Il megafono sociale è strutturato in sette fasi: si parte da un brand, si individua una causa socialmente rilevante, si cercano partner esperti nella causa, siano essi individui, enti o organizzazioni, si pensa a un’azione concreta per raggiungere l’obiettivo, si realizza una campagna creativa coinvolgendo un ambassador iconico, si coinvolgono i collaboratori interni all’azienda, si calcolano l’impatto sociale e l’impatto mediatico.

Il caso PizzAut e il welfare aziendale

L’esempio più noto di messa in pratica di questo modello è la collaborazione tra Danone e PizzAut, pizzeria gestita da ragazzi autistici fondata nel 2017 da Nico Acampora. In questo caso il marchio da cui si è partiti è Danette, famoso per lo storico jingle, riadattato da Elio (l’ambassador) per creare una campagna creativa a cui hanno partecipato anche le persone di Danone con lo scopo di aiutare Acampora ad aprire una nuova pizzeria. L’impatto mediatico è stato molto alto, quello sociale ancora di più: oltre all’apertura di un secondo locale, Danone Italia ha assunto un ragazzo autistico distaccandolo presso PizzAut, e adesso aiuterà Acampora ad acquistare un food truck. Un altro esempio è quello di Danacol, bevanda che aiuta a ridurre il colesterolo e marchio famoso a cui Danone ha legato un’iniziativa in collaborazione con il Policlinico Gemelli offrendo check-up gratuiti sui sette fattori di rischio cardiovascolare.

Un approccio che parte dal business

L’aspetto interessante di questo approccio è che parte dal business, non dalla Csr, che secondo Gavelli «è superata». Le aziende, dice a Tempi l’ad di Danone Italia, «devono essere coscienti che se non si fanno carico anche dei problemi sociali e ambientali potranno sì fare fatturati e profitti nel breve termine, ma nel medio e lungo periodo non saranno sostenibili».

Il principio di fondo è quello della sussidiarietà: «Non possiamo aspettare che siano le istituzioni a risolvere questi problemi, devono essere anche le istituzioni, stimolate dalle aziende con iniziative virtuose. Un esempio? Quando abbiamo iniziato il nostro programma interno nel 2011 la normativa prevedeva 1 giorno di paternità retribuita e noi abbiamo deciso di riconoscere 5 giorni di congedo retribuito rendendolo obbligatorio. Nel tempo sono cresciuti a 10 e oggi sono 20, il doppio di quello che prevede la normativa. E i risultati si vedono». Sia in termini di numeri (Danone Italia ha un tasso di natalità tra i propri dipendenti più alto della media del paese), sia in termini di collaborazione fattiva con le istituzioni e i politici, non a caso presenti in numero significativo all’evento romano del 16 aprile.

La chiave di volta del lavoro

Il lavoro è la chiave di volta, spiega Gavelli: «Inclusività e diversità si costruiscono col lavoro, come si vede nell’esperienza di PizzAut, dove 35 ragazzi che in molti casi neppure parlavano oggi si sentono utili alla società e addirittura vogliono pagare le tasse – una cosa che ha piacevolmente sorpreso la sottosegretaria all’Economia Lucia Albano quando siamo andati a raccontarglielo». Ma il lavoro è anche un punto fondamentale per aiutare la genitorialità: «Sapendo che ci sono garanzie lavorative, che una donna dopo la maternità può tornare in azienda senza problemi e con agevolazioni, una coppia può guardare a un futuro con dei figli in maniera più positiva», chiosa Gavelli.

E i famigerati “errori di comunicazione” che investono chi fa del bene ma “lo dice male”? «Io penso che se si fanno delle cose positive per la società bisogna farle conoscere, perché generano un volano positivo. Certo, tutto deve essere fatto con professionalità, avvalendosi di avvocati ed esperti di compliance. Personalmente non amo la formula “corporate social responsibility”, perché si tratta di azioni decise il venerdì pomeriggio alle cinque: faccio una donazione a un’associazione che con me non c’entra niente per lavarmi la coscienza e così penso di aver fatto quello che il percorso Esg mi richiede. Invece nel momento in cui faccio diventare questo percorso parte del mio business e del brand gli investimenti vengono più naturali. Non si tratta di fare qualcosa di estemporaneo. Aiutare la società in modo strutturale è più sostenibile».

Sostenibilità è una parola attorno a cui ci sono molti equivoci, però. Per Danone ha quattro facce, tutte legate tra loro: economica, ambientale (puntando ad esempio alla riduzione degli sprechi grazie a collaborazioni con, tra gli altri, Banco Alimentare e Banco Farmaceutico), sociale ed etica. Si parte dal business, e dal profitto, per fare del bene. Funziona.

Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di maggio 2024 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

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