Ogni cosa è concimata

«L’Oceano Padano galleggia su tre elementi: acqua, letame e burro». Cronache dal principato del duttile pragmatismo campagnolo, dove si resiste al secolo, si cava bellezza dal bisogno e annoiarsi è una fede

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Ogni cosa è concimata»: finalmente un bel sentire. In questi tempi di astrazioni digitali e penne prestate alla causa della società liquida e della nuova specie social, uno Spartaco esce dal coro, e dice una cosetta così: «Credo che una buona approssimazione della felicità possa ritrovarsi racchiusa in pochi chilometri quadrati di Oceano Padano, tra i confini segnati dalle rogge e dai campi di granoturco, e dal nostro pudicamente inammissibile bisogno di consolazione». Il punto non è che uno scrittore si dovrebbe occupare del resto mondo, ma che scrivendo Oceano Padano (editori Laterza, 171 pagine, 13 euro) Mirko Volpi, classe 1977, ricercatore in linguistica italiana all’università di Pavia, lo ha fatto senza occuparsene: in ogni riga dedicata a quella «dimora del tessuto burroso che si dipana tra l’Adda e l’Oglio: e dal centro della Lombardia verde si irradia indefinibilmente ad est, un poco a ovest ma si arresta ritroso ai piedi del più piccolo accenno di altezza», si avverte una sorta di gestazione tranquilla di una positività, una saldezza per il mondo, di concime del mondo. Mentre fuori il resto accade, nell’Oceano Padano il sole al tramonto «cade sempre, immancabilmente, dietro a un mucchio di merda», la vera ambrosia del fittavolo, la sicurezza di un fatto, di un posto dove c’è sempre da fare, da costruire, da concimare, e lo spazio delle sensazioni è quello che resta tra le mani callose, le pieghe della pelle bruciata, il fumo che esce di bocca d’inverno.

Tutto, in questo Oceano che riposa sotto un sole lattiginoso e galleggia in pace su «acqua, letame e burro» lambendo l’Isola madre (la «distante e aliena, Milano. La Città»), ritrova finalmente il suo posto grazie a un innato rapporto non sentimentale con gli altri esseri viventi, «l’istintiva inclinazione a collocare l’acqua nei fossi, le pannocchie nel campo, gli animali nei recinti che gli competono». In altre parole in questo principato «del duttile pragmatismo campagnolo che cava bellezza dal bisogno», il cane sta fuori a far la guardia, il gatto è ignorato perché non serve, le vacche e i maiali, bestie superiori, «di superbo sfarzo estetico ed enogastronomico» e animali sacri, «li onoriamo al meglio ammazzandoli e mangiandoli nel più sontuoso dei modi», regnano incontrastati; salami e cotechini sono appesi a stagionare nei garage, nelle lavanderie, nei disimpegni delle case, l’amore non si dice ma si fa, i contenziosi si risolvono non con gli avvocati, ma con quattro roncolate bene assestate dietro il campo di melga, i morti vengono onorati in casa da solide certezze estetico-filosofiche (Par ch’al dorma. Par ch’al rid. Vardé ‘me l’è bel. Par püsé bel adess che prima, è tutto un ripetere delle sciure paladine del memento mori ai lati della bara), solide generazioni vengono tirate su grazie alla ruspante pedagogia campagnola, «Prima da parlà, tas» (o «Caregna carogna, caregna carogna», piangi carogna, piangi carogna, ripetuto ai lattanti in pianto fino allo sfinimento), e all’antimoderno pilastro dell’alimentazione: la merenda delle quattro, pane burro e zucchero.

L’archetipo della Bassa
«Ma dov’è che vai sempre in giro a fa el stùped? Sta’ un po’ a cà tua». Appassionato dantista e tuttavia tutt’altro che homo viator, figlio e nipote e discendente di una stirpe adusa solo «ai cambi periodici di cascina e di mezzadrie, ai sanmartini stagionali», Volpi ha assorbito secoli di permanenze: «Mi da chì ma sa sposti gnanca mort» è l’universale ritornello, il tributo di parole povere all’essere degli oceanici «molecolarmente agganciati ai fusti di melga, alle aie assolate». Gente a cui scorre il burro nelle vene, scabri e sintetici «per un eccesso di profondità consonante con la natura dei luoghi», la cui indipendenza è «quella dell’acqua che sgorga da sola dalla terra» e la lingua comune è quella che tace «nella certezza che qui ci piantumano radici più robuste di quelle dell’olmo. Altro non serve, noi amiamo restare».

E si capisce: qui si collabora sempre con la realtà e i ritmi scanditi dall’avvicendarsi delle stagioni, delle burde (i nebbioni), la spüsa di letame, gli inni a Dio, che qui ha preservato l’autunno in una composizione unta, sgocciolante e perfetta come la cassoeula, la limpidezza di una natura verde, marrone e azzurra che serve sempre la verità. Il mare salato l’oceanico non lo capisce, “cosa me ne faccio?”, “ci irrighi mica i campi, con questa”, lui «ama solo le rogge, i pesci di fosso, le polle d’acqua sorgiva, gli infidi canali ombreggiati dai filari di ontani, le increspature dei fili d’erba delle verdissime distese. E nella sua mente vede tutto ciò trasformarsi in foraggio, concime, latte formaggio. Lavoro ricchezza». Qui in sostanza, si pratica un amore senza ritorno.

«Sono nato a Nosadello, come nessuno», scrive Volpi, e scrivendolo dice tutto di quell’isola in cui è spremuto e condensato l’Oceano Padano. Nosadello è «un presidio culturale contro il presente», e quindi un luogo necessario, al pari di tutti gli altri luoghi che stingono nel verde oceanico, ignorati da chi li attraversa cercando la strada per la Statale Paullese: punteggiato di campanili che richiamano il popolo rurale alla sua fede solida e indiscussa; operoso nel silenzio, indisponibile a barattare attenzioni con alcunché. Qui le sciure d’estate fanno la prova grembiule, la strada più breve per arrivare al successo è una cavedagna, «mio padre nel pieno della canicola dice a mia madre “intanto che imparo a morire, portami un ghiacciolo”», alle 19.50 d’estate, si inalano i fumi dello zampirone sotto il portichetto. Nient’altro succede perché a Nosadello non è mai successo niente. A parte la comparsa di qualche “talebano” («l’11 settembre ci ha fornito di novità lessicali»), solo una volta ha piovuto molto, i tombini si sono intasati, «mia madre già brandiva lo scopettone come la Giovanna d’Arco del ripristino dell’ordine; guardavamo con occhi inespressivi la Gradella tracimata, stavamo lì, “ha tracimato”, “l’è vegnida foeura, che bale…”, già annoiati dalla novità».

Benedettissimo tedio
Sì, perché l’attività principale a Nosadello è annoiarsi. Da Nosadello ci si sposta solo per tre ragioni: per lavoro (sbancare il lunario a Milano), per conquista (far rissa alla festa della birra di Ombriano), per pellegrinaggio (al santuario di Santa Maria del fonte di Caravaggio). Per il resto «succede così poco che faccio fatica ad inventarmi quello che potrebbe succedere» e anche questo è un bel sentire, così politicamente scorretto e mondano da trovarci spremuto il contenuto supremo dell’esperienza dell’uomo, la caducità delle cose, il senso innato della contingenza, il sole che cade dietro un mucchio di merda, dietro le cascine, dietro i padri e i figli che hanno bevuto dalle stesse rogge e che imparano a morire mangiando un ghiacciolo. E trovi in quell’umile adesione a un destino di noia, una umile speranza di salvezza, di conservazione e protezione: «Nosadello, il mio svogliato e distratto baluardo alle aggressioni del secolo», dove è ancora possibile essere certi nella presenza del Bene e sperare che sul campo patinato di brina tornerà a grandeggiare la melga: «L’attendere certo, la gloria del futuro raccolto».

In cima a una delle torri che dominano il complesso dell’università di Pavia si legge, appena sotto l’orologio “Par ingenio Virtus”. A Nosadello, patria di un ottimismo intinto nello spleen del vecchio mulino fermo da anni, su una balla di fieno della cascina Zuetta, si legge: Va’ a laurà, pirla. Fuori, intanto, il “resto” continua ad accadere: intorno all’Oceano Padano si avvicenda un mondo, pieno di gente che non solo non sa cos’è la cassoeula, ma non sa nemmeno come si pronuncia.

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