Non pagare il pizzo alla mafia si può e conviene. Chi ce l’ha fatta

Un imprenditore al Sud può operare senza le mafie e senza pagare il pizzo. Se lo fa, ci guadagna. E' questa la tesi di Senza Padrini, scritto da Filippo Astone, un viaggio che racconta le storie di tanti che non pagano il pizzo, «non per eroismo, ma perché sono imprenditori nel senso più liberale del termine»

Un classico avvertimento mafioso: quattro proiettili che, nel maggio 2010, vengono recapitati, rispettivamente, al procuratore generale di Caltanissetta Sergio Lari, al procuratore capo di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, al presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello e al vicepresidente nazionale e presidente di Confindustria Caltanissetta Antonello Montante. In genere le mafie minacciano i magistrati e le forze dell’ordine. Perché anche due imprenditori? E perché contemporaneamente a due magistrati? Perché la criminalità organizzata vive di collusioni con la “borghesia mafiosa” e chi si ribella fa un danno molto rilevante. Specie se, come hanno fatto Lo Bello e Montante, riesce a dimostrare che è possibile operare senza le mafie. Anzi, che liberarsi dal crimine organizzato, conviene anche.

Questa la tesi di Senza Padrini (Tea Editore), che racconta intrecciando economia e cronaca, la nascita, l’evoluzione e le prospettive della cosiddetta “primavera siciliana”, la rete di imprenditori che ha detto no alla mafia. L’autore, Filippo Astone, è un giornalista economico e ha già pubblicato un duro saggio (Il partito dei padroni, Longanesi, 2009) su Confindustria. Occupandosi dei grandi gruppi industriali si è incuriosito davanti alla presa di posizione di Confindustria Sicilia, che qualche anno fa convenne di espellere dal proprio circuito non solo gli iscritti notoriamente collusi con la mafia, ma anche quelli che pagavano il pizzo. Le storie di Senza Padrini permettono anche di capire che cosa sono le mafie dal punto di vista economico, quanto sono pervasive e quanto danneggiano il sistema.

Nel libro trovano un rilievo considerevole le testimonianze di Antonello Montante e Ivan Lo Bello, i capofila maggiormente esposti del movimento. Ma ci sono anche tanti titolari di piccole-medie imprese, forse meno noti alle cronache, che hanno dedicato anima e corpo a sostenere questa battaglia. Il nuovo clima cambia le aziende coinvolte, ma soprattutto la cultura e il modo di pensare che le circonda: le 160 denunce sporte dagli industriali siciliani nel giro di appena 18 mesi, là dove tutti erano storicamente abituati a pagare e a tacere, sono un segnale importante.

«Lo fanno non per eroismo o calcolo politico, ma perché sono imprenditori, nel senso più liberale del termine» spiega Astone. «La mafia distrugge l’economia, mentre la legalità permette all’azienda di prosperare. Oltre ai già numerosi aiuti a chi denuncia le vessazioni mafiose, nel 2012 partirà un progetto, pensato da Confindustria in accordo con l’Unione Europea, per fornire a chi si libera della mafia risorse concrete: fondi, accesso al credito, formazione, contatti». Una presa di posizione come quella di Confindustria Sicilia «spezza le paure, smentisce i luoghi comuni e toglie l’acqua di coltura alle mafie. Cosa Nostra infatti non è eterna e la Sicilia non è irredimibile». Una «scelta vitale» per il futuro del Mezzogiorno e del resto d’Italia: un’idea nata da un’élite ma prontamente divenuta progetto collettivo. «Questi industriali hanno agito nel mondo sociale con un approccio molto pragmatico, simile a quello che dovrebbero avere gli imprenditori di successo» continua l’autore. «Fanno, rischiano in proprio, senza chiedere niente a nessuno. Si mettono in gioco. E vincono».

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