Noi, lasciati sulla spiaggia a Dunkerque

Andremo a vedere Dunkirk. Ma il nostro film è il volo di Saint-Exupéry sull’Europa che brucia. Il sacrificio di un uomo che rinunciò a tutto per combattere una battaglia persa

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Andremo al cinema a vedere Dunkirk. Proveremo forti emozioni per una “Survival Story” che si preannuncia ben scritta e fedele alla realtà storica – se fa fede l’omonimo libro di Joshua Levine, il consulente storico del regista Christopher Nolan. Scopriremo forse come il popolo inglese ha saputo trasformare una disfatta catastrofica in un momento di rinascita nazionale. Non so fino a che punto coglieremo il senso e l’attualità di tale metafora. Gli inglesi che lasciano il continente nelle mani dei tedeschi per continuare ad essere padroni del loro destino. Dunkerque come la Brexit. La Festung Europa di Hitler come l’Unione Europea guidata da Angela Merkel e dai banchieri di Francoforte.

Certo, oggi la Blitzkrieg non ha avuto bisogno delle Panzer-Division e degli Stuka che si abbattono sulle colonne dei profughi con le trombe di Gerico urlanti, ma solo di due, tre mesi di speculazione, altrettanto ben orchestrata e urlante, contro i titoli del debito pubblico, nell’estate del 2011. Il resto è una ferita che sanguina tuttora. Che è vietato pensare di rimarginare. Galantuomini che si impiccano perché non possono più pagare dipendenti e fornitori. La marcia verso il nulla di milioni e milioni di nuovi disoccupati e nuovi poveri. L’occupazione continua. E il giovane presidente Macron dispone forse di più gradi di libertà nei confronti dei nuovi occupanti tedeschi del vecchio generale Pétain?

Eugène Ionesco scrive all’indomani di Dunkerque e della caduta della Francia: «Odio me stesso per non essere un dio e non poter salvare la Francia; annientare i suoi nemici. È talmente tristemente idiota non poter far altro che frasi, non offrire che lacrime, impotenza». Certo, andremo al cinema a vedere Dunkirk. Ma ci renderemo conto che noi, francesi, italiani, europei continentali, siamo quelli che sono stati lasciati sulla spiaggia di Dunkerque? Nessuno ci riporterà a casa. La nostra casa è qui.

La Francia in fuga
Non mi resta allora che parlarvi di Saint-Exupéry. No, per piacere, non tiratemi fuori Il Piccolo Principe, questo intimo, ultimo idillio dell’amore per la sua Consuelo. Il bimbo che non hanno mai avuto e che hanno concepito con la stilografica e gli acquerelli. No, voglio, devo parlarvi di un eroe, di un uomo che ci ha insegnato, al prezzo della sua stessa vita, cosa vuol dire guadagnarsi un posto nella compagnia degli altri uomini, di fronte alla frana immane che travolge oggi, come nel maggio 1940, il nostro mondo, l’“eredità dei nostri padri” che, a Rimini, ci dicono, dobbiamo riguadagnare. Questa storia è scritta nel romanzo Pilota di guerra, Pilote de guerre (il titolo inglese è Flight to Arras), ma è la sintesi dei carnet di volo delle sue ultime missioni di guerra, durante la devastante campagna di Francia.

Ne ho preso l’altro giorno, dalle mani di mia madre, novantunenne, la gualcita edizione originale (1942) dell’editore Gallimard, che lei mi ha riletto, questa estate, nel suo francese perfetto. Il suo ricordo, conservato come un insetto nell’ambra, di questa stessa Francia, da cui lei è scampata con la sua famiglia, alla vigilia della guerra, perdendo tutto. Un tutto che, per mia mamma, all’alba della sua giovinezza, era una bicicletta americana, all’ultima moda, con le frange che uscivano dalle manopole del manubrio, un regalo per un compleanno che cadeva il 7 agosto 1939. Troppo vicino al 1° settembre. Saint-Exupéry, in Pilote de guerre, avrebbe forse potuto parlarvi anche della bicicletta di mia madre. Come scrive di una quercia secolare all’ombra della quale generazioni di fidanzati si sono scambiati le loro promesse che, per quindici minuti di vana resistenza all’avanzata del nemico, viene fatta abbattere da un ventenne ufficiale di artiglieria perché sì, può disturbare il campo di tiro. Oui, c’est bien embêtant. Sì, ciò fa davvero arrabbiare. E mi verrebbe da scrivere in francese. E mi verrebbe di fare qualcosa, come Saint-Ex. Restituire una bicicletta americana a una ragazzina che scappa dai tedeschi. Ripiantare quella quercia abbattuta affinché gli innamorati possano, sotto la sua ombra, giurarsi per secoli amore eterno. Ma soprattutto, amici, vorrei, come lo vorreste voi, avere la possibilità di combattere la buona battaglia, come Saint-Ex. Vorrei essere Saint-Ex.

«Il Gruppo 2/33 è casa mia»
Giovedì, 23 maggio 1940. In solo due settimane di offensiva i tedeschi hanno sfondato e travolto tutto. Sedan è caduta. Antoine de Saint-Exupéry ha fatto e brigato, nonostante i suoi quasi quaranta anni e i gravi acciacchi (fra cui una spalla rotta che gli impedirebbe di lanciarsi col paracadute), per essere assegnato a una unità combattente. Non è più lo scrittore già reso universalmente famoso da Courrier Sud, Vol de nuit e Terre des hommes, in cui narra l’epopea dell’Aéropostale, i primordi del servizio di posta aerea e dell’aviazione civile, vissuta da protagonista, come aviatore. Il 2 dicembre 1939, quando si presenta al tenente Laux, comandante della terza squadriglia del Gruppo di grande ricognizione aerea 2/33, con l’uniforme un po’ logora e gli stivaloni, si presenta con semplicità così: – Saint Exupéry, pilota. Gli altri aviatori, incuriositi, che gli si avvicinano, per vederla finalmente questa celebrità, trovano un omone che non finge umiltà, che arrossirà come una scolaretta quando, il 14 dicembre, vorranno fargli una festicciola perché l’Académie française gli ha conferito il suo Gran Premio per Terra degli uomini. No, lui è solo un uomo che quasi ha timore di essere felice per il grande dono di trovarsi unito nella compagnia degli altri uomini e aggiunge: – È bello qui da voi. Se mi accettate, sarò contento di restare. Sì, come un Dio che si è nascosto nella carne degli uomini, per vivere nella compagnia di un Pietro, di un Giacomo e di un Giovanni e gettare assieme la rete, niente desidera di più che la compagnia dei suoi nuovi amici, involontari apostoli che si chiamano Dutertre, Israël, Sagon, Hochédé, Gavoille, Moreau, Lacordaire.

Personalità politiche e culturali della Francia e del mondo libero fanno carte false per sottrarlo ai rischi mortali del servizio attivo. Lui resiste ad ognuna di queste benintenzionate tentazioni. Non vuole essere messo su uno scaffale, come un vaso di pregiata confettura, da spalmarsi sul pane della propaganda quando la guerra sarà vinta e finita. No, in questo momento, ha deciso di combattere una battaglia che oggi, tutti lo sanno, è persa, e il cui esito disperato non lo esime dalla partecipazione. «È così. Io rientro a casa mia. Il Gruppo 2/33 è casa mia. E io comprendo quelli di casa mia. Non mi posso sbagliare su Lacordaire. Lacordaire non può sbagliarsi su di me. Io sento questa comunità con un sentimento di evidenza straordinaria: “Noi, del Gruppo 2/33!”».

E si guadagna il suo posto in questa comunità, con la sua incontenibile simpatia, coi suoi incredibili giochi di prestigio con le carte, battendo ogni sera a scacchi il medico della squadriglia (che si incazza tremendamente), cantando come un usignolo le loro canzoni, strabiliandoli con trucchi da ipnotizzatore, grafologo, matematico. Ma soprattutto condividendo gli stessi rischi, a diecimila metri di altezza, dove il timone dell’aereo, le manette del gas e le mitragliatrici vengono rese inutilizzabili dal gelo, dove la caccia nemica non ti uccide ma ti assassina perché sei senza difesa, dove inalare ossigeno puro per ore ti secca la trachea e ti lascia debole come un vegliardo e sbloccare quella manetta del gas ghiacciata costa sforzi da scaricatore.

Missione suicida
Ma oggi, ce lo siamo dimenticato, è giovedì, 23 maggio 1940. È qui che il nostro film, non Dunkirk di Christopher Nolan, ci riporta alla realtà della guerra. Il povero comandante Alias ha convocato Saint-Ex e il suo osservatore Dutertre. La missione è, in pratica, suicida. La tensione è altissima. Saint-Ex se la prende con l’aiutante che non gli trova i guanti, dà dell’imbecille a un altro perché gli ha portato un caschetto di cuoio che è troppo stretto, che non è il suo, impreca per farsi legare una matita con una cordicella a una certa bottoniera. Nessuno ribatte perché, mentre si infila la tenuta di volo a triplo spessore che lo fa sembrare un palombaro, tutti sanno che si sta abbigliando per un boia che li aspetta sul cielo di Arras. Anche il più coraggioso potrebbe ritirarsi per vomitare o, finalmente, piangere nella solitudine della carlinga. Saint-Ex prega per un guasto ai laringofoni. Sono paccottiglia i laringofoni. Se non funzionano non può comunicare con l’osservatore Dutertre posizionato nella gabbia di vetro che costituisce il muso del ricognitore, né con Mot, il mitragliere, nella postazione difensiva alle sue spalle e certo, allora, la missione non potrebbe avere luogo.

Mot li aspetta sulla pista dove il Bloch 174 scalda i motori. Si fanno i controlli. I laringofoni funzionano. Siamo allora presto in volo e la tensione non ha più ragion d’essere nel momento in cui Saint-Ex si deve concentrare per tenere la rotta a 313° gradi sulla bussola, regolare il passo delle eliche e la temperatura dell’olio dei motori e controllare che l’ossigeno sia ben somministrato dagli erogatori.

Ma voliamo a diecimila metri di quota su Compiègne, Rosières-en-Senterre, Bray-sur-Somme, Albert, Bapaume. Su una Francia dove, da un minuto all’altro, la gente del paese deve abbandonare tutto per sfuggire all’avanzata della Wehrmacht, caricare all’inverosimile le bagnarole e qualsiasi cosa abbia le ruote, e incolonnarsi in direzione opposta, dove immancabilmente, dopo pochi chilometri, procedendo a passo d’uomo, le auto esauriranno la benzina, i radiatori fumeranno e non si troverà più un goccio di latte per i bambini. Completamente alla mercé del caso, tenta di risalire quello che rimane dell’esercito francese, ma non arriverà da nessuna parte, se non a mescolarsi alle colonne di profughi, impedendone maldestramente l’esodo. È un esercito di sconfitti e la sconfitta fa marcire tutto, scioglie tutti i nodi che legano le cose. Tutto è in panne in questa Europa di cui Saint-Exupéry rivendica le radici cristiane, dove l’uomo ha imparato ad essere uguale all’altro uomo in Dio, dove la Carità all’uomo è il servizio a Dio che spiega perché un medico debba vegliare al capezzale di un assassino: il nichilismo dei nuovi e dei vecchi totalitarismi (hitlerismo, stalinismo, mercatismo) traduce la sua perversa matematica in questa orda dilagante, unanime e priva di volto che incombe.

Dieci secondi di speranza
Non possiamo più accontentarci di guardare dall’alto questa umanità come fosse una colonia di infusori sul vetrino di un microscopio. Dobbiamo scendere e affrontare l’inferno che ci aspetta su Arras, consumata da un incendio che fuma come un vulcano. È in quel momento che Dutertre, dal suo posto di osservazione, scopre a sud-ovest della città incendiata un’enorme concentrazione di carri armati e gli ordini sono chiari, bisogna scendere a 200 metri d’altezza per la ricognizione, dove si è alla portata non solo della contraerea automatica ma di qualsiasi arma. Questa corsa su Arras, Saint-Ex lo sa, è un consapevole sacrificio. Gli scoppi della contraerea si accumulano in piramidi di fiocchi neri, ora alla destra ora alla sinistra dell’aereo, solo le formidabili pedate sulla pedaliera che governa il timone, inferti con tutta la forza delle cosce, riescono a far imbardare l’aereo in modo da confondere la mira dei nemici, ma quale speranza di vita ci resta? Dieci secondi? Venti secondi? I serbatoi sono crepati, ma nessuno si sogna di abbandonare questa missione dal cui esito potrebbe dipendere la salvezza di molti, non ultimo il Corpo di spedizione britannico, chiuso nella morsa e diretto a Dunkerque. E il nostro film non può concludersi se non inquadrando il volto intento di Saint-Exupéry, un volto dove la speranza cresce ad ogni secondo di vita guadagnato.

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