Il bollino “no-mafia-grazie”. Come l’antimafia è diventata un rito mediatico

Riflessione controcorrente di un magistrato siciliano che non ne può più delle lotte ipocrite contro le mafie che sono tutta apparenza e niente sostanza

Tempi.it ripropone una riflessione di Francesco Tripodi, magistrato presso la Corte d’appello di Messina, pubblicata su lascintilla.org, il sito dell’associazione politico-culturale La Scintilla di Reggio Calabria, di area liberale.

Qualche dubbio le persone più serie e ragionevoli dovrebbero pure iniziare ad averlo. Intendiamo riferirci al fatto che – passata la stagione in cui di mafia ed antimafia non si parlava affatto – oggi vi è probabilmente una inflazione di discorsi, sigle, manifestazioni “anti-mafia”. A scanso di equivoci, e soprattutto per non essere tacciato di scarsa sensibilità civile, cerchiamo di intenderci. Il problema della forza in Italia delle organizzazioni mafiose, dei loro legami e delle infiltrazioni nel mondo della politica e delle imprese è giustamente da alcuni anni oggetto di crescente attenzione, non più una questione confinata alle operazioni di polizia e alla risposta giudiziaria. Si è compresa la necessità di parlare al plurale di “mafie”, sono emerse presenze radicate ed aggressive nelle zone più ricche ed avanzate del paese, prima tra tutte la Lombardia. Si è sottolineata l’importanza di fare memoria delle vittime che negli anni essa ha mietuto, di promuovere iniziative di testimonianza come la gestione di imprese animate da giovani ed associazioni sui terreni confiscati alle organizzazioni mafiose.
Ma sappiamo come funzionano queste cose, purtroppo. A prevalere almeno mediaticamente troviamo, assai spesso, la scorciatoia della risposta facile, superficiale, ad effetto. Quel che è peggio, in tanti corrono per dirsi rappresentanti di questa mitizzata società civile, avendo a cuore, più della lotta alla mafia, la loro visibilità e il loro successo. I segnali che questo fenomeno esista ed abbia assunto dimensioni preoccupanti sono diversi. Provo ad indicarne qualcuno, senza alcuna volontà di polemica.

Dovrebbe far pensare, intanto, il dato innegabile che l’associazionismo “antimafia”, da isolata e spontanea forma di resistenza civile e pungolo della coscienza collettiva, si sia lentamente trasformato in un “soggetto politico” spesso complicato e frammentato, che ha le sue sigle ed i suoi leaders nazionali e locali, ineludibile riferimento di qualunque dibattito politico e culturale sui temi della legalità.
Per alcuni è stata una crescita ragionata e preparata, animata dalla volontà di un serio lavoro di base che ha prodotto frutti assai buoni. Per altri si è trattato – a colpi di comunicati, slogan e magliette – solo di conquistare visibilità e peso politico. Cercando, ad esempio, un rapporto preferenziale con i magistrati antimafia più in vista, ambiguamente inseguiti come “combattenti” solitari scorporati dal lavoro quotidiano dei loro uffici, osannati per i successi, protetti sui media contro ogni tentativo di presunta “delegittimazione”.
È difficile ignorare il fatto, ad esempio, che molti di questi magistrati, non solo quelli che hanno fatto il salto in politica, sono oggi richiestissimi da un sistema editoriale e mediatico complesso e rodato che giornalmente sulla mafia produce libri, organizza convegni e dibattiti in lungo e in largo per l’Italia sempre più ripetitivi, alimenta localmente la distribuzione di quei “premi” che, diceva uno scrittore, servono più alla fama di chi li dà che al prestigio di chi li riceve.

Ora, per quanto alla formazione di una coscienza del cittadino su questi temi tutto possa servire, la “cultura” antimafia non dovrebbe misurarsi sulle tonnellate di libri, produzioni televisive, appuntamenti e convegni, ecc. che ci stanno sommergendo. Eppure è così. E sembra quasi, a leggere alcuni segnali, che mostrarsi poco attivi in questa prospettiva, sia diventato rischioso.
Per esempio, una delle critiche più curiose che furono tirate fuori i primi giorni del governo Letta (che pure di critiche ne poteva meritare) è che nei dieci punti programmatici il premier non avesse usato la parola “mafia”. Prova che se a un certo genere di “antimafia” non dai in pasto qualcosa, ti salta addosso e non è facile uscirne, tant’è che al povero Letta è toccato subito intervenire dicendo in televisione (mi pare da Fazio) che il governo si sarebbe rivolto ad alcuni noti magistrati antimafia per avere spunti e suggerimenti in materia di riforme legislative.

Anche Bersani del resto, prima di Letta, aveva cercato con la convocazione di Don Ciotti, mescolata a quella di partiti e sindacati negli incontri per la formazione del governo, di mettere sulla sua piccola zattera che di lì a poco sarebbe affondata, il sigillo di uno degli esponenti più solidi e stimati dell’antimafia.
Ogni politico sa da tempo, insomma, che se non mette una buona dose di comunicazione “anti-mafia” nel suo percorso prima o poi sarà attaccato. E così può capitare anche che una forza politica, sentendosi in qualche misura scoperta sull’immancabile fronte della lotta alla mafia, apra le porte al rappresentante di una delle tante associazioni che possa darle lustro e se lo porti in Parlamento. Serve, se quel che conta è l’apparenza: basta organizzare una giornata con gli studenti, stampare un logo o un bollino no-mafia-grazie, approvare qualche leggina regionale con contributi a chi svolge attività antimafia, istituire la giornata di questo o di quello. Essere in regola insomma con i “riti” dell”impegno antimafia.

Anche il linguaggio è ormai condizionato dall’ossessiva e superficiale ripetizione di alcuni temi. Si va per frasi fatte. Così: non bisogna “abbassare la guardia” di fronte alla mafia, ma ancor più rispetto ai “poteri occulti” (che sono sempre più occulti, ma sulla cui esistenza nessuno dubita); bisogna poi colpire non “i manovali” del crimine (nella cui categoria entrano ormai anche i capimafia) ma “il terzo livello”, anzi – ormai è più di moda – la “zona grigia” tra mafia, politica, affari (che non siamo noi e non siete soprattutto voi, se qualche nostra iniziativa la sponsorizzate …), ecc.
Qualcuno, infine, in questo festival dell’approssimazione è pronto a rifare da subito i programmi scolastici: inutile studiare la storia contemporanea ed i classici del pensiero politico o della questione meridionale. Meglio in pillole i pentiti e i processi. Così pure, la trattativa “Stato-mafia” è ormai, dopo un martellante approccio mediatico, un fatto pacifico di cui occorre solo trovare il cervello; Riina poi ha certamente baciato Andreotti, non si sa solo bene dove e quando… Che fare, come muoversi?

Anzitutto occorre riflettere se questi segnali sono reali e ci dicono che qualcosa dobbiamo cambiare, come credo. Poi cercare su tutti i piani di irrobustire, anzitutto attraverso la consapevolezza critica di noi cittadini, l’antimafia buona, quella che lavora con serietà, che potrà parlare sempre meno di mafia e concentrare le sue forze sulla costruzione di un terreno di legalità e giustizia del quotidiano.
Ma soprattutto la scuola. Andrebbe rafforzato e incoraggiato il lavoro in classe dei semplici maestri favorendo percorsi di educazione civile che animi lo studio e la comunicazione quotidiana. La gratificazione delle sale stracolme di studenti portati da presidi e professori ad ascoltare i personaggi dell’antimafia non deve ingannare. La realtà di massa di tante scuole, penso ad alcuni paesi della nostra provincia, è assai meno entusiasmante, il fascino di modelli mafiosi stenta a scomparire, resta il vandalismo su treni e mezzi pubblici, l’assenza di disciplina in aula e fuori è vissuta con rassegnata accettazione dal mondo degli adulti.

In questo senso, forse sarebbe più educativo rimboccarsi le maniche e ripulire insieme il giardino pubblico che c’è di fronte alla scuola, dibattere poi un progetto innovativo di manutenzione autogestita, scrivere infine agli amministratori con le idee chiare e proporre una soluzione. Crescere, insomma, come cittadini. Dunque: riscopriamo la Costituzione, non quella di carta, ma quella di Calamandrei, come ci hanno aiutato a fare recenti positive esperienze anche in Calabria: un confronto con la realtà che ci circonda alla luce dei suoi valori, con gli educatori giusti.
Contro la mafia va bene così. Evitiamo demagogie, non sprechiamo tempo e denaro. Potremmo prendere esempio da un intellettuale come Enzensberger che, anni fa, osservava sconsolato la cronica mancanza di fondi per scuole materne ed università, mentre la fiera degli eventi culturali non conosceva mai crisi, proponendo provocatoriamente una moratoria di due anni per  “eventi” e “premi” culturali, destinando l’ennesimo che gli volevano conferire a migliorare le biblioteche pubbliche del posto. Inascoltato, neanche a dirlo. Era il 1993 e lo scrittore si riferiva alla Germania.

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