NO GLOBAL a tutto acciaio

I dazi doganali del 30 per cento sulle importazioni di acciaio decisi da George W. Bush sono motivati da ragioni di sicurezza nazionale. Campane a morto per la globalizzazione, che ha bisogno della pace

a globalizzazione è finita, andate in pace. Anzi, no: andate in guerra. Per quanto possa suonare surreale, è questo il commento più logico della più importante notizia politico-economica del 5 marzo scorso: l’annuncio dell’applicazione da parte degli Usa di tariffe doganali comprese fra l’8 e il 30 per cento del valore del prodotto sulle importazioni di acciaio per una durata di 3 anni da parte del presidente Bush. È un annuncio che suona contemporaneamente la campana a morto per quanto riguarda la globalizzazione dell’economia mondiale (saranno contenti, nel buio della loro ignoranza, i no global di varie obbedienze) e l’adunata generale contro il terrorismo islamico e l’«asse del male» (Iran, Irak e Corea del Nord). Perché una cosa è certa: il neo-protezionismo americano ha poco a che fare con l’economia e tanto con la sicurezza nazionale.

Tutti contro Bush il protezionista

Il primo risultato sortito dal provvedimento è stato una generale levata di scudi a livello internazionale: da Prodi a Blair, da Duisenberg al portavoce del governo cinese, dal commissario europeo al commercio Pascal Lamy al presidente brasiliano Cardoso, ai ministri economici di Francia, Germania, Australia, Corea del Sud, Giappone, ecc., la protesta è stata unanime. Il primo ministro britannico ha definito l’imposizione tariffaria americana, che potrebbe causare la perdita di 5mila posti di lavoro nell’industria siderurgica del Regno Unito, «inaccettabile, ingiustificata e sbagliata»; il ministro delle finanze francese Laurent Fabius ha stigmatizzato: «non si può predicare l’apertura e la competizione e allo stesso tempo fare ricorso a metodi anacronistici di protezione tariffaria»; e quello tedesco Werner Muller ha sintetizzato la generale preoccupazione: «Questa decisione non solo crea tensioni nelle relazioni commerciali fra Usa ed Europa, ma rappresenta un segnale negativo, in quanto arriva subito dopo l’apertura di un nuovo ciclo di negoziati commerciali a Doha». Al vertice di novembre del Wto nell’emirato arabo il segretario Mike Moore aveva sudato le proverbiali sette camicie per convincere tutte le delegazioni ad avviare un nuovo, impegnativo ciclo di negoziati globali per la liberalizzazione dei commerci. Dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi le barriere doganali in tutto il mondo sono andate progressivamente abbassandosi grazie agli accordi multilaterali in sede Gatt e, poi, Wto, ma dopo la decisione di Bush c’è da aspettarsi un’inversione di tendenza. È assolutamente prevedibile che i paesi danneggiati dai dazi Usa non si limiteranno a inoltrare ricorso in sede di Wto, ma che attueranno ritorsioni. La Ue, per esempio, rischia di essere sommersa da importazioni di acciaio a basso prezzo dall’Estremo Oriente che fino ad oggi accedevano al mercato americano, e di perdere di conseguenza 18mila posti di lavoro. I commissari europei stanno valutando tre differenti percorsi di azione, tutti altamente conflittuali: l’imposizione di dazi ad eventuali importazioni di acciaio da paesi terzi; l’imposizione di tariffe di accesso e diritti di atterraggio alle compagnie aeree Usa che usufruiscono di aiuti di Stato per ritorsione; l’applicazione di sanzioni alle imprese americane esportatrici che usufruiscono di una legge fiscale Usa già condannata in sede di Wto. Nel primo caso ci rimetterebbero paesi come Corea del Sud, Cina, Giappone, Brasile; negli altri due gli Usa, che così perderebbero nel settore aereo e di altre imprese esportatrici quello che in termini di posti di lavoro salvati guadagnano coi dazi nel settore siderurgico.

Come Kennedy ai tempi della Guerra fredda

Che la decisione di Bush non sia razionale né dal punto di vista economico né da quello sociale lo dimostrano anche altri fatti: Jon Jensen, che rappresenta le imprese americane che utilizzano acciaio per le loro produzioni, ha affermato: «Queste tariffe sono tasse sulle manifatture americane, soprattutto nel settore automobilistico e delle costruzioni. I consumi caleranno a causa dell’aumento dei nostri prezzi, e i nostri addetti perderanno il lavoro». Senza dimenticare che le tariffe non risolvono il principale problema che azzoppa la competitività delle industrie siderurgiche Usa: gli sconsiderati benefit pensionistici e sanitari che le imprese hanno concesso negli anni Ottanta e Novanta ai loro dipendenti in cambio della moderazione salariale.

Per fare piazza pulita di questi costi, che mese dopo mese allungano la lista di imprese siderurgiche Usa che finiscono in bancarotta, servirebbe qualcosa come 12 miliardi di dollari. Che i sindacati già stanno chiedendo al governo. Il senso delle azioni di Bush, in realtà, si comprende soltanto nell’ottica della sicurezza nazionale: quando si deve fare fronte ad una grave crisi interna o esterna, il protezionismo è una scelta politica, non economica. I precedenti storici al proposito sono illuminanti: le due più grandi ondate protezionistiche Usa sono quella del 1930, quando il presidente Hoover pensò di tamponare gli effetti socialmente destabilizzanti della Grande Depressione con l’introduzione di una legislazione protezionistica nota come “le tariffe Smoot-Hawley” (dal nome dei due congressisti che le proposero); e quella del 1960, quando, nel pieno della Guerra fredda, il presidente Kennedy si trovò a gestire un bilancio federale metà delle cui risorse erano destinate alla spesa militare e concordò in una serie di vertici con gli industriali (“Big Steel”) e i sindacati dell’acciaio (“Big Labour”) una politica dirigista dei prezzi e dei salari. Bush si trova oggi in circostanze simili a quelle di Kennedy: quando si va in guerra, di acciaio ne serve parecchio, e non si può certo dipendere da forniture di altri paesi, né tantomeno coinvolgerli nella gestione di tecnologie sensibili per la sicurezza nazionale. Che la globalizzazione sia la prima vittima del nuovo clima di economia di guerra è nella natura delle cose.

Come aveva ben spiegato Robert Cooper, gran consigliere diplomatico di Tony Blair, prima dell’11 settembre: «la forza propulsiva della globalizzazione può essere economica, ma i suoi fondamenti sono politici… Dopo il crollo dell’Unione Sovietica la sicurezza non è più il tema dominante delle relazioni internazionali, e si è aperto un vasto spazio per l’economia». E dopo quella data Amity Shlaes, acuta editorialista filo-repubblicana, ha fatto notare: «L’avanzo del bilancio federale negli anni Novanta e il “dividendo di pace” derivante dalla fine della Guerra fredda sono una sola cosa. Questo significa che la nuova minaccia terroristica renderà più difficile per l’America innovare, crescere e generare avanzi di bilancio in futuro». È sicuro: rimpiangeremo la globalizzazione. Oh, se la rimpiangeremo.

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