Nella tana del lupo islamista

A che punto è l’islamizzazione delle masse arabe? Cosa non abbiamo ancora capito di quello che da qualche decennio sta avvenendo sull’altra sponda del Mediterraneo? Al Cairo, la più grande megalopoli araba dove 76 anni fa sono nati i Fratelli Musulmani, si possono trovare molte risposte. Viaggio alle radici del fondamentalismo islamico.

Visto dall’alto di un volo Swiss sembra uno sterminato plastico di sabbia grigia, un monstrum a metà fra il capolavoro di bambini prodigio sulla spiaggia e un maxi modello per architetti e urbanisti delle Nazioni Unite. Ma visto e respirato da dentro, è un incubo meridiano che ti soffoca, ti assorda e ti acceca coi suoi sciami di veicoli a motore, il vociare di 17 milioni di uomini, donne e bambini, il sole implacabile dell’estate che trasforma qualunque scorcio in una diapositiva sovraesposta. Il Cairo – il più grande portacenere rovesciato del mondo, una New York dei poveri che davvero non dorme mai (e non fa dormire coi suoi milioni di clacson suonati a ogni incrocio a qualunque ora del giorno e della notte e i lamentosi richiami dei suoi muezzin alle quattro del mattino), il mistero del traffico urbano più anarchico del pianeta eppure mai imbottigliato ma sempre in costante movimento – ti soffoca con la sua nuvola di gas velenosi, col caldo insopportabile, con la sua marea umana. E sembra raccogliere con un sorriso ironico l’inane sfida che gli portiamo.

Paralleli fra islamismo e comunismo italiano
Siamo qui per un viaggio alle radici del fondamentalismo islamico, nella presunzione di capire com’è germogliata e cresciuta la mala pianta, di scoprire a che punto è o non è l’islamizzazione delle masse arabe e quale futuro per riflesso noi occidentali possiamo aspettarci. In Egitto, infatti, sono nati 76 anni fa i Fratelli Musulmani (Fm), l’organizzazione capostipite di tutte le correnti del radicalismo islamico sunnita. Sono nati in polemica col laicismo e il nazionalismo di marca europea che negli anni Venti dilagavano nelle ex province dell’Impero Ottomano e per reazione alla “catastrofe” del 1924: l’abolizione da parte di Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, del califfato, cioè dell’istituzione che simboleggiava (senza alcun riscontro con la realtà storica già da secoli) l’identificazione fra autorità religiosa e potere politico nell’islam. Il motto dei Fm, coniato dal fondatore Hassan al Banna e mai modificato, riassume il credo di generazioni di islamisti di tutto il mondo: «Dio è il nostro scopo, il Corano è la nostra Costituzione, il profeta è il nostro leader, la lotta è il nostro metodo e la morte in nome di Dio la più alta delle nostre aspirazioni». L’Egitto è anche il luogo dove si è verificata la decisiva frattura, prima ideologica e poi politica, all’interno dell’entità islamista fra due correnti, quella che potremmo definire “gramsciana”, dedita alla conquista del potere dal basso attraverso l’egemonia culturale, e quella “rivoluzionaria”, intenzionata a portare l’attacco al cuore dello Stato. Negli anni Sessanta Sayyd Qutb, il prigioniero politico islamista che poi fu impiccato per ordine del presidente Nasser, teorizzò che i governi arabi usciti dal processo di decolonizzazione andavano considerati kafir, “infedeli”, da parte dei veri musulmani, con tutte le conseguenze del caso; lo sceicco al Hudaiby, succeduto ad al Banna a capo dei Fm, disconobbe questa posizione in un documento dall’eloquente titolo “Predicatori e non giudici”. Ma il seme della discordia intestina era ormai gettato, e alla fine degli anni Settanta maturò com’era prevedibile: nacquero movimenti più radicali (Gamaa Islamiya, Jihad egiziano, ecc.) che in rottura coi Fm, giudicati incoerenti coi loro stessi princìpi, fecero la scelta della lotta armata contro lo Stato egiziano apostata. Fra il 1981 ed il 1997 gli estremisti hanno assassinato un capo di Stato (Anwar el Sadat) e centinaia di poliziotti, cristiani copti, turisti stranieri e intellettuali egiziani; poi più nulla. Oggi i terroristi che non sono stati passati per le armi e stanno scontando lunghi termini di detenzione scrivono libri su libri per annunciare il loro pentimento ed il loro desiderio di partecipare ad una transizione democratica all’interno delle istituzioni. Chi è rimasto sulla vecchia linea militarista ha abbandonato il paese per unirsi ai combattenti di al Qaeda sotto la guida di Ayman al Zawahiri, il medico egiziano numero due di Osama bin Laden.
I Fm ufficialmente sono fuori legge da un quarto di secolo e di tanto in tanto le forze di sicurezza compiono retate contro le loro “cellule clandestine” (l’ultima nel maggio scorso, 58 arrestati), ma di fatto l’organizzazione gode di un profilo pubblico, con tanto di sede, struttura direttiva (sotto la guida del nuovo sceicco Muhammad Akef), portavoce, stime sull’affiliazione (fra i 2 e i 3 milioni di iscritti), manifestazioni tollerate dalle autorità e 15 deputati presenti nel parlamento nazionale come indipendenti. Il governo è saldamente nelle mani del 75enne presidente Hosni Mubarak, che mantiene il paese in una posizione di equilibrio fra l’Occidente ed il mondo arabo. Ma la società, i costumi, l’opinione pubblica dove stanno andando?

Il Cairo: grattacieli, turisti e donne velate
Il primo impatto con la città e coi suoi abitanti non sembra fatto per tranquillizzare. Il Cairo è indubbiamente la città più cosmopolita di tutto il mondo arabo: colpisce la stratificazione di stili architettonici, una successione di moschee e fortezze ottomane, medine arabe e ville coloniali liberty nei quartieri che si trovano in un raggio di dieci km dal centro rappresentato dall’isola di Zamalek, la Manhattan cairota coi suoi grattacieli e avveniristici ponti sul Nilo; la presenza dell’Università americana a fianco di quattro università statali; la notevole quantità di chiese cristiane antiche e moderne a fianco di moschee di ogni epoca; l’andirivieni di turisti americani, europei, russi e giapponesi. Eppure l’80-90 per cento (a seconda dei quartieri) delle donne porta il velo e un abbigliamento che copre braccia e gambe: non importa se giovani o anziane, abbienti o di modesta condizione; la grande maggioranza veste l’hijab, un foulard avvolto attorno al capo, un 5-10 per cento veste il niqab, un abito che ricopre l’intero corpo tranne una sottile fessura all’altezza degli occhi. «Non era così quando sono arrivato qua», racconta padre Christiaan Van Nispen, gesuita olandese che vive al Cairo da 40 anni. «A quel tempo le donne velate erano una minoranza. Quindici anni fa, all’inizio degli anni Novanta, la proporzione era già 50-50. Oggi, come lei può vedere, le donne senza velo sono molto poche, quasi tutte appartanenti alla minoranza cristiana copta». Dentro alla metropolitana -un’infrastruttura unica nel mondo arabo e uno dei pochi luoghi della città, fuori dai sentieri battuti dai turisti, dotati di toponomastica traslitterata anche in caratteri latini- tutti i treni dispongono di due carrozze riservate esclusivamente alle donne; me ne accorgo quando un poliziotto, ridendo divertito, mi trascina per un braccio giù dal vagone su cui ero erroneamente salito: fossi stato un egiziano, l’esperienza sarebbe stata meno divertente, perché avrei dovuto pagare una multa di 5 sterline locali, che per la maggioranza degli egiziani è più della paga di un giorno di lavoro.

Moschee tranquille, avvocati e giornalisti agitati
Dalle finestre della centralissima sede dell’Ordine degli avvocati -poco lontano dal museo egizio- pendono sempiterni striscioni di protesta. Quelli di oggi recano la scritta: «Hiroshima, Nagasaki, Vietnam, Corea: questa è la civiltà degli americani». Altre volte si tratta di calorosi inviti a rilasciare detenuti politici. L’Ordine degli avvocati, insieme a quelli dei medici e degli ingegneri e in parte quello dei giornalisti, è sotto l’influenza degli islamisti. L’ampio marciapiede di fronte al palazzo e la spaziosa piazza Tahrir poco distante sono spesso la scena di rumorose manifestazioni anti-americane e anti-israeliane, con qualche slogan antigovernativo, tenute a bada da un numero di agenti in tenuta antisommossa superiore a quello dei manifestanti. Tranquillità assoluta, invece, nei pressi delle moschee, riprese in mano dal governo al 100%: una legge di due anni fa ha fissato la lunghezza dei sermoni (non più di 20 minuti), i temi (quelli politici non sono ammessi) e istituito un albo degli sceicchi autorizzati. Ma soprattutto agenti in armi sostano stabilmente di fronte a chiese e moschee, delle quali è assolutamente vietato prendere fotografie (altra esperienza personale abbastanza incresciosa). Resta il fatto che nei mercatini rionali di frutta, verdura e alimentari e sui marciapiedi davanti a negozi e negozietti centinaia di registratori riproducono ad ogni ora del giorno sermoni e letture coraniche incise su nastro. Laddove in Italia sentiremmo risuonare canzonette, qua ascoltiamo quasi soltanto invocazioni religiose.
Arab-West Report, una rassegna della stampa egiziana tradotta dall’arabo all’inglese creata qui al Cairo da Cornelius Hulsman, giornalista olandese, mi permette di comprendere alcuni brani di un articolo di Al Akhbar, il più diffuso quotidiano egiziano (para-governativo): «È comprensibile che la maggior parte dei cristiani orientali si sia convertita all’islam», scrive un certo Muhammad Emara, «in quanto rappresentava una forma di monoteismo più adatta alla loro mentalità raziocinante di quella che si trovava nel cristianesimo… Se gli ebrei ed i cristiani avessero mantenuto l’ebraismo ed il cristianesimo nella loro forma incorrotta, avrebbero accettato il messaggio di Dio trasmesso loro attraverso Maometto». Lo stesso giorno un altro quotidiano molto diffuso al Cairo, il panarabo Al Hayat, scrive: «L’esplosione dell’odierno conflitto fra Occidente ed islam non è tanto responsabilità di una o dell’altra delle due parti, ma dei sionisti… Quel che i sionisti vogliono è creare un nuovo schema di Guerra fredda, in cui l’islam sia il nemico giurato dell’Occidente». Su Al Wafd di ieri, quotidiano di un partito d’opposizione che si definisce nazionalista e liberale, a proposito dell’assedio delle truppe americane alla moschea di Ali a Najaf si poteva leggere: «Questo disprezzo per l’islam ed i musulmani non sono altro che la manifestazione degli insegnamenti sionisti contenuti ne “I protocolli dei savi di Sion”. Nei protocolli si legge che un giorno essi avrebbero controllato il più potente paese del mondo e dominato la mente dei suoi generali». Quando un amico egiziano mi dice che dal Cairo negli ultimi mesi sono partiti volontari per andare a combattere nella “resistenza” irakena 500 persone, parte islamisti e parte nazionalisti panarabi, non mi meraviglio più. Un po’ di meraviglia continuo a provarla solo quando mi accorgo che tutti i miei interlocutori – assolutamente tutti: l’ex militante degli estremisti islamici, il giovane simpatizzante comunista, il leader politico islamista, l’analista politico filo-governativo, l’intellettuale cristiano copto, il giornalista anglosassone- mi confermano che se si andasse a libere elezioni domani, una coalizione di partiti islamisti raccoglierebbe sicuramente fra il 30 ed il 40 per cento dei voti e diventerebbe la forza politica di maggioranza relativa.

Islamizzazione? No, schizofrenia e manipolazione
Dette le cose così, parrebbe proprio che la strategia gramsciana dell’islamizzazione dal basso stia dando i suoi frutti copiosi. Ma c’è qualcosa che non convince, un dettaglio che non torna. Mi guardo intorno. Le strade sono piene di donne velate di tutte le età, è vero. Ma viste da vicino, le donne egiziane, soprattutto le giovanissime, sono tutto tranne che sciatte e pudibonde: il rimmel intorno agli occhi è perfetto, ciglia e sopracciglia sono curatissime; il colore del foulard è sempre perfettamente in tinta con quello del rossetto o con lo smalto delle dita di mani e piedi, oggetto di cura maniacale. Non che reprimere, il velo e l’abbigliamento castigato esaltano la sensualità della loro figura, per la studiatissima combinazione fra visibile e non visibile, proibito e permesso (haram e halal, direbbero i teologi giuristi dell’autorevolissima università islamica di Al Azhar). La civetteria è al diapason, solo i distratti e gli ottusi possono vedere in queste donne scrupolo religioso, modestia, senso di colpa e autopunizione del corpo femminile. A riprova di questo, un episodio: passo di fronte alla chiesa cattolica di Sakakini, nel quartiere di Abbassiyya, dove sosta in permanenza un capannello di ragazzi e ragazze sudanesi denka. Sono profughi fuggiti dal sud Sudan, che al Cairo attendono insieme alle famiglie un visto per emigrare in America o in Australia. Gli originari copti cattolici egiziani che vivevano qui sono emigrati in quartieri periferici più eleganti, così questa è diventata una delle parrocchie dei sudanesi neri cristiani, presenti al Cairo in numero di 40 mila. Fra i giganteschi ragazzi che ciondolano intorno, belli come statue e neri come la notte, noto due ragazze egiziane velate che si intrattengono amabilmente con due di loro. Il fascino africano è più forte dell’abisso di differenza razziale e religiosa: qui, nell’Egitto patriarcale e islamizzato…
«Vedo che cominci a capire», mi dice Wael Farouq, giovane insegnante che ha abiurato i Fm e Jihad egiziano, nei quali ha militato per alcuni anni (vedi la sua storia in Tempi n. 34/35, p. 32). «Ma quale islamizzazione! La parola che descrive meglio la nostra società è schizofrenia. È una società dove 3 mila giovani spendono 3mila sterline in una sera (6 mesi di stipendio di un dipendente pubblico) per ascoltare Enrique Iglesias, e sono gli stessi giovani che si commuovono per gli islamisti in carcere e che partecipano alle manifestazioni contro gli scrittori i cui libri vengono proibiti da Al Azhar perché giudicati blasfemi. I più debosciati fra i ragazzi sono i più fondamentalisti: bevono alcol e praticano ogni genere di immoralità, ma se ti sentono dire una sola parola di critica all’islam ti saltano addosso per ammazzarti. I leader islamisti e dei Fm tuonano ogni giorno contro l’immoralità negli spettacoli e nei cartelloni pubblicitari, ma fra i loro finanziatori ci sono produttori di film pornografici». Per Farouq l’ascesa dell’islamismo è l’esatto contrario di un revival religioso; è piuttosto il risultato di una crisi del senso religioso e morale: «Gli egiziani vivono un vuoto spirituale e si sentono in colpa per una serie di comportamenti privati che non possono ammettere in pubblico. Hanno bisogno di placare il senso di colpa e di affermare la loro rispettabilità sociale, e gli islamisti offrono la risposta a questo duplice bisogno. La tua vita personale è priva di senso religioso, e compi molte azioni che sono contrarie alla norma religiosa ed ai valori morali, ma puoi metterti in pace la coscienza e salvare le apparenze sociali con gli atti esteriori che gli islamisti ti indicano: portare il velo, o meglio ancora il niqab, farti crescere la barba, pregare per strada, elogiare i combattenti del jihad, disprezzare gli infedeli, accusare i governanti di apostasia. La gente ha bisogno di ritrovare un equilibrio, per questo fa quello che gli islamisti le dicono di fare. È molto facile manipolare la gente a partire dalla crisi del suo senso religioso, e gli islamisti, che sono dei politici e non degli spiriti religiosi, se ne approfittano».

Femministe esaltano il velo e l’esercito
La geniale analisi di Farouq dischiude le porte di una realtà più articolata di quel che si immagina. «La generalizzazione del velo -spiega padre Van Nispen- è qualcosa di più di un successo della propaganda islamista. È anche il prodotto della politica governativa, che a più riprese si è appropriata delle tematiche che gli islamisti sollevavano ritenendo così di disinnescarne la potenzialità eversiva. Ma è anche il risultato di una profonda trasformazione culturale, indipendente dai programmi degli islamisti. Il Cairo è diventato una megalopoli in un arco di tempo molto breve, così le differenze fra città e campagna sono state cancellate: la campagna è entrata nella città e la città è entrata nelle campagne. Questo comporta che una quantità senza precedenti di donne sono diventate visibili in pubblico, nel paesaggio urbano, ma il corrispettivo di questa apertura è la generalizzazione di quella garanzia simbolica della continuità coi valori del passato che è il velo. Infine c’è la valenza identitaria del velo: le ultime generazioni vivono una situazione di anomia, non vogliono più sottostare ai ruoli sociali tradizionali, ma mancano dell’educazione che permetterebbe loro di appropriarsi dei nuovi ruoli. Il senso di perdita è più forte del sentimento di emancipazione. Nel velo e nella religione in generale, allora, cercano un punto di stabilità dentro ai cambiamenti».
Un personaggio simbolo di questo processo è senza dubbio Heba Raouf, ambigua figura di “femminista islamista” e docente di teoria politica all’università del Cairo. A 13 anni appena, Heba creò un caso presso la scuola cattolica a cui genitori (musulmani) l’avevano iscritta pretendendo di indossare il velo durante le lezioni nonostante la perplessità delle suore tedesche che gestivano l’istituto. «Il velo -mi dice- è un segno del ritorno alla religione, ma non solo. È il mezzo che ci permette di essere presenti e attive nella società senza subire molestie sessuali e di sottolineare la nostra identità culturale. Noi donne non vogliamo più essere semplici oggetti del desiderio maschile, vogliamo essere cittadine a pieno titolo, e il velo ci permette di partecipare alla vita pubblica senza essere “mobbizzate”. È un’ottima cosa che in Egitto ci siano vagoni riservati alle donne nella metropolitana, perché questo ci permette di viaggiare senza subire molestie». Il “femminismo islamista” di Heba si spinge fino a invocare l’estensione del servizio militare obbligatorio alle donne: «Se vogliamo essere cittadine a pieno titolo, dobbiamo poter assumerci anche noi il dovere di difendere la nostra terra, soprattutto in questo tempo di minacce». Proprio così: in Egitto islamismo e femminismo camminano insieme al ritmo scandito dagli stivali militari sul selciato.

Fine prima parte

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