Il Natale in Brasile di 73 cristiani perseguitati afghani

Dopo l'arrivo dei talebani sono fuggiti da Kabul e oggi vivono in Paraná grazie alla Missione di sostegno alla Chiesa sofferente, il Mais. I racconti del loro primo 25 dicembre senza paura

In Paraná, nel sud del Brasile, c’è un gruppo di 73 afghani che ha vissuto un Natale molto diverso qualche giorno fa. Sono quasi tutti cristiani ed è stata la prima volta che hanno potuto festeggiare senza paura di essere scoperti, con una cena collettiva, musica e preghiera, la nascita di Gesù bambino. Perseguitati dalla sharia per non essere musulmani sono fuggiti da Kabul e dintorni dopo che i talebani hanno preso il potere l’ultimo Ferragosto e, adesso, vivono nell’hinterland di Curitiba, la capitale del Paraná, in un piccolo comune chiamato Colombo fondato da italiani.

«Quei Natali festeggiati di nascosto in Afghanistan»

«Quando ero in Afghanistan il Natale si festeggiava solo in famiglia, rintanati in casa, perché là non c’è libertà religiosa ed essere cristiani è una condanna a morte», spiega a Tempi un’avvocatessa 33enne il cui nome omettiamo per ovvi motivi di sicurezza. La sua famiglia è una di quelle salvate da un gruppo religioso brasiliano dedicato ad aiutare i cristiani perseguitati nel mondo, la Missione di sostegno alla Chiesa sofferente, il Mais. A metà settembre, il presidente Jair Bolsonaro aveva promesso nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che il Brasile avrebbe concesso visti a “cristiani, donne, bambini e anziani afghani”.

La menzione del cristianesimo aveva scatenato polemiche in Brasile, tutte fomentate dalla sinistra e dai tanti media che l’appoggiano, facendo sorgere più di un dubbio sulla fattibilità del progetto ma, adesso, la realtà è sotto gli occhi di tutti nella Città del Rifugio”, così si chiama il villaggio di cristiani afghani, costruito a tempo di record nei mesi scorsi.

Ospiti della “Città del Rifugio”

Si tratta di coppie con bambini, anziani e giovani single che sono arrivati in quattro gruppi, tra il 25 novembre e il 18 dicembre scorso, dopo mesi di burocrazia e di tanti rischi durante il viaggio che ha portato la maggior parte di loro a passare per il Pakistan, altro paese affatto tenero con i cristiani. Il villaggio, fondato dal Mais, è stato inaugurato ufficialmente il 18 dicembre scorso e i rifugiati, che sono seguiti da un’equipe di psicoterapeuti per superare il trauma, sono stati tutti vaccinati contro Covid-19 e febbre gialla, che qui in alcune Brasile è obbligatoria.

Rimarranno nella “Città del Rifugio” sino ad aprile e stanno già prendendo tutti lezioni di portoghese, per imparare a comunicare con i brasiliani. Dopo questo primo periodo di ambientamento, andranno in altre città del paese del samba, lasciando spazio nel villaggio del Mais a nuovi gruppi di rifugiati cristiani afghani in attesa di venire in Brasile.

Che cosa fa il Mais per i cristiani perseguitati

Il Mais nasce nel 2010 per aiutare nella ricostruzione di Haiti dopo il grave terremoto che causò oltre 250mila morti. Quest’organizzazione che aiuta i cristiani perseguitati nel mondo e che è molto grata al presidente Bolsonaro per avere reso possibile questo progetto, sinora aveva ricevuto 240 cristiani, provenienti da Siria, Pakistan e Iraq. Adesso è il turno degli afghani. I 73 cristiani arrivati da Kabul hanno background e professioni diverse alle spalle, alcuni sono elettricisti, altri autisti, poi ci sono parecchi avvocati ma anche ragionieri. Il più giovane è un bambino nato in Pakistan pochi giorni prima del viaggio, da una nascita prematura. Uno dei più vecchi è un uomo che sta traducendo la Bibbia in dari, la lingua afghana.

Per tutti loro, la religione è stato l’elemento scatenante che ha reso le loro famiglie vittime di persecuzione da parte dei talebani. Il marito di un’altra donna rifugiatasi nella “Città del Rifugio”, ad esempio, era nell’esercito e lei era una professoressa universitaria e un’attivista per i diritti delle donne che lavorava a progetti con una ONG Statunitense. «Stanno cercando questa tipologia di persone e le uccidono una a una», racconta lei al quotidiano brasiliano Folha de Sao Paulo. Anche sua figlia dodicenne era un possibile bersaglio perché si esibiva come cantante in spettacoli televisivi – qualcosa che i talebani più radicali considerano un sacrilegio. La sua famiglia ha portato solo i vestiti e i passaporti. «Non abbiamo avuto il tempo di prendere niente, non potevamo restare lì neanche un altro giorno. Quando abbiamo raggiunto il Pakistan, i miei vicini ci hanno chiamato dicendo che i talebani erano andati a cercare mio marito. Grazie a Dio, siamo fuggiti. Fino all’ultima ora, avevamo paura di essere scoperti, arrestati e uccisi».

In chiesa per la prima volta

L’Afghanistan è il secondo paese al mondo dove i cristiani sono più perseguitati, di più soltanto in Corea del Nord, fa sapere la ong internazionale Open Doors. «È impossibile vivere apertamente come cristiano in Afghanistan. Non professare l’islam è considerato vergognoso», spiega Luiz Renato Maia, il pastore presbiteriano che presiede la missione. Anche per questo non si sa quanti afghani cristiani ci siano a Kabul e dintorni. Secondo l’International Christian Concern si stima che siano 12mila, su una popolazione totale di 38 milioni di abitanti. Praticamente tutti sono ex convertiti musulmani, che devono nascondere questo fatto anche ai loro stessi parenti per paura di rappresaglie. «È un cristianesimo familiare, praticato in casa. Il gruppo dei 73 che abbiamo portato in città sono entrati in una chiesa qui per la prima volta», precisa il pastore Maia.

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