Non era solo fame di hamburger

McDonald's chiude i suoi fast food in Russia. Quando aprì il primo a Mosca nel 1990 fu un evento stellare. Cosa è andato storto? La "fame" di libertà non s'acquieta solo con la pancia piena

L’idea era venuta a George Cohon, manager ebreo ucraino per parte di padre e americano per parte di madre. A pensarci oggi, quasi una presagio che un giorno il cerchio si sarebbe chiuso con le stessa nazionalità protagoniste: ciò che iniziò per mano russa, ucraina e americana, oggi si sfalda tra le stesse dita.

McDonald’s chiude i suoi 847 punti vendita in Russia. Li «sospende temporaneamente», dicono le cronache, anche se tutti sanno che un certo destino è già segnato. Si parla già di vendita a qualche acquirente locale anche perché ci sono da sistemare i 62.000 dipendenti ora a spasso. Scrive il Washington post che è già pronto “Zio Vanja”, che ha già depositato un marchio che ricalca molto quello del Mac e che assorbirà i disoccupati.

Qualcosa che non avete mai assaggiato

La guerra non risparmia nulla, nemmeno gli hamburger. «Non è più possibile continuare a gestire l’attività in Russia», ha detto la multinazionale del panino a basso costo. Una decisione che è stata presa anche dopo la solita campagna social su Twitter, con migliaia di indignati che al grido «BoycottMcDonalds» hanno spinto l’azienda a prendere le distanze dall’invasione russa in Ucraina. Le fauci russe non si meritano il panozzo a stelle e strisce.

Quando McDonald’s aprì a Mosca fu un evento stellare. In rete circolano video di migliaia di russi ordinatamente in fila in piazza Pushkin davanti al primo negozio con la M dorata. Erano così tanti che dovette intervenire la polizia per organizzare le file di questi meravigliosi russi intabarrati, infreddoliti, smunti e pallidi dopo 70 anni di comunismo e sbobbe sovietiche razionate e insapori, ma lì determinati a superare la porta del locale per scoprire cos’era questa benedetta civiltà e libertà, sotto forma di panino col ketchup e la maionese.

Raccontò Michael Dobbs, inviato a Mosca del Washinton Post, che una babushka interrogò un commesso: «Dicci un po’, com’è questo Beeg Mak?». «Il Bolshoi Mak, compagni – precisò quello -. Il Bolshoi Mak è qualcosa che non avete mai assaggiato prima». “Qualcosa che non avete mai assaggiato prima”, cos’è questa se non la promessa del serpente nel giardino dell’Eden? Chi mai può resistervi? E infatti i russi non resistettero.

Libertà con l’unto sulle dita

Quel 31 gennaio 1990 in piazza Pushkin a Mosca c’erano 30 mila persone. Trentamila! S’erano messe in fila dalle 4 di mattina. Avevano sopportato ore al gelo pur di addentare quel panino che costava 3,75 rubli, un’enormità nella Russia dell’epoca. Un menù arrivava a costare 8 rubli, più o meno la metà di uno stipendio medio giornaliero. «Se non puoi andare in America, vieni al McDonald’s a Mosca», diceva la campagna pubblicitaria, che aveva funzionato alla grande. Code ve ne furono anche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, e in giorno dopo ancora e così per anni.

McDonald’s crebbe non senza difficoltà ma crebbe, certamente più rapidamente di tante altre attività imprenditoriali. Il secondo fast food aprì a Mosca nel 1993, l’Urss non c’era già più, ma la “fame” di libertà era la stessa. All’inaugurazione c’era il presidente Eltsin che sventolava bandierine rosso McDonald’s, per dire. Era arrivato l’Occidente in piazza a Mosca e aveva il sapore dell’hamburger e delle patatine fritte: anche quella era libertà, lasciava pure l’unto sulle dita.

La borsetta “non si sa mai”

Il Muro era appena crollato, ma la perestroika gastronomica funzionava già perfettamente. Per avere un tavolo bastava sedersi, non era più necessario corrompere il cameriere. E gli addetti erano tutti laureati, tutti sorridenti e tutti gentili. Era il mondo a colori, dove tutto ha un prezzo, tutto è nuovo, tutto riempie lo stomaco, tutto è troppo.

Sul Corriere Fabrizio Dragosei ha raccontato che le code erano così lunghe che i giovani moscoviti s’erano inventati un mestiere: «Arrivati alla cassa acquistavano una dozzina di panini (c’era una specie di razionamento, per evitare gli accaparramenti). Poi risalivano la fila e vendevano gli hamburger a chi poteva permettersi di pagare un piccolo extra». I moscoviti si erano così inebriati di tutte queste novità che avevano preso l’abitudine di girare per la città con un sacchetto di plastica chiamato avoska («non si sa mai») che avrebbero riempito di ogni ben di dio che si fosse affacciato all’improvviso nelle vetrine di qualche negozio.

La fame e la pancia

Si può provare a immaginare quell’euforia, quell’ingordigia perfino, quella voglia di provare tutto e non accontentarsi mai. La libertà è concreta, la libertà ha sapore. Si può mettere sotto i denti, può gonfiare la pancia con le sue bollicine e sporcare gli angoli della bocca di rosso pomodoro.

Ma qualcosa deve essere andato storto se, 32 anni dopo, quella promessa s’è trasformata in rancore e odio, se McDonald’s chiude e pure la Coca Cola lascia la Russia. Cos’è successo? Quella fame di hamburger era solo fame di hamburger? Quella voglia di bollicine era solo voglia di bollicine? Cosa ci chiedevano e non gli abbiamo dato? Avevano fame di «non si sa mai», ma non volevano solo riempirsi la pancia. Ecco l’atroce dubbio: forse nemmeno sul nostro menù era disponibile la libertà che volevano ordinare giunti al bancone. Anche la nostra avoska era vuota.

Foto Ansa

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