Marek Halter

La velenosa alleanza tra la laïcité alla francese e l'islamismo alla frère Tariq. La cattiva coscienza dell'Europa e la differenza della libera America. L'ira di uno scrittore di sinistra si rovescia sul nichilismo di una modernità stanca

«Ma è vero che un uomo dalla lunga militanza a sinistra e illustre firma di Libération come lei, ha votato Sarkozy?». «Non è andata esattamente così. Alcuni miei amici, tra i quali per esempio André Glucksmann, mi hanno chiesto di appoggiare Nicolas Sarkozy. Invece altri, fra i quali anche Bernard-Henri Lévy, mi hanno proposto di schierarmi con Segoléne Royal. Allora io, in un articolo pubblicato sul Journal de la Dimanche, ho spiegato che il compito degli intellettuali non è quello di dichiararsi a favore di questo o di quel politico, ma di ricordare agli uni e agli altri qual è il loro compito, qual è il bene del popolo. Un ruolo non dissimile da quello che avevano i profeti nell’antico Israele». È fatto così Marek Halter, parte da uno spunto di cronaca quoti-diana e inevitabilmente allarga l’orizzonte fino alle radici della sua cultura, e da lì torna a gettare sull’attualità uno sguardo arricchito da una millenaria sapienza. Nato nel ghetto di Varsavia nel 1936, fuggito rocambolescamente a quattro anni nella Polonia occupata dai comunisti, rifugiatosi nel 1950 in Francia, Halter si proclama oggi non praticante e non credente. Il che non gli impedisce, però, di restare tenacemente legato alla tradizione del suo popolo, e perciò di fare di tutto per comprendere l’amore che gli altri uomini hanno ciascuno per le proprie origini. Di passaggio a Milano in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, La mia ira, abbiamo avuto l’opportunità di conversare con lui sui temi che gli stanno a cuore.
Monsieur Halter, anche nel suo libro lei sottolinea il debito che la tradizione democratica occidentale ha con i profeti di Israele.
Sì. La parola “democrazia” viene dal greco, ma la sua pratica dalla Bibbia. Ad Atene la democrazia è fortemente elitaria, esclude: donne, schiavi, stranieri, e Platone vorrebbe tenerne fuori anche i poeti, questi «creatori di favole». Nella storia del popolo ebraico, invece, assistiamo per la prima volta alla netta separazione dei poteri, quando Mosè prende per sé il potere politico e affida ad Aronne quello religioso. Ma soprattutto nella divisione fra potere politico e religioso si apre uno spazio per la società civile, a cui danno voce i profeti. La democrazia europea è fatta di questi tre fattori, il potere politico, quello religioso e la società civile. Se uno dei tre viene a mancare, la democrazia è zoppa. E gli intellettuali hanno oggi il compito che fu ieri dei profeti. Qualche volta i profeti ci hanno rimesso la pelle, qualche volta gli intellettuali rischiano ancora oggi: non è mai comodo fare il profeta.
Una divisione dei poteri che non troviamo nella maggior parte dei paesi islamici.
Se vogliamo capire cos’è l’islam, non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che è l’unica religione che è nata nel deserto. L’ebraismo e il cristianesimo sono religioni urbane, si sono sviluppate nelle città. L’islam è nato in mezzo a uomini tagliati fuori dal mondo, che nelle lunghissime notti passate nel deserto sognano, sognano la conquista di verdi pascoli: il drappo verde che rappresenta l’islam altro non è che il simbolo di questi verdi pascoli sognati dai beduini. E se guardiamo più da vicino, anche nel mondo islamico all’inizio ci sono delle divisioni. Anche loro all’inizio amavano i poeti. Il Corano è un’opera di poesia, non di prosa. Poi, quando sono cominciate le guerre, Maometto ha fatto fuori tutti i poeti. Il potere non sopporta i poeti e i profeti. Ma i poeti sono sorti ancora: pensiamo a tutta la grande poesia sufi, alla grande tradizione del dialogo tra poeti e letterati arabi, ebrei e cristiani nella Spagna medievale. Poi sono arrivati gli Almohadi, gli antenati dei moderni fondamentalisti, che hanno spazzato via tutto. Ma io non dispero dell’islam, è una religione giovane, può evolvere, arriveranno altri poeti (ce ne sono già al giorno d’oggi, del resto) a ricordare ai potenti il bene del popolo.
Non è quello dei poeti e dei profeti il volto che l’islam sta mostrando nella vicenda del boicottaggio della Fiera del libro di Torino dedicata alla letteratura israeliana.
Non si boicotta la letteratura. Quelli che hanno proclamato il boicottaggio sono imbecilli e ignoranti. Come se io per protesta contro Hitler mi rifiutassi di leggere Thomas Mann. Oltretutto la maggior parte degli scrittori ebrei presenti a Torino si batte in favore dei diritti dei palestinesi. Ma dietro il boicottaggio ci sono personaggi come Ahmadinejad o Tariq Ramadan, che sono dei criminali. Cominciano bruciando i libri ebrei e finiscono col bruciare gli ebrei. Sa perché gli ebrei resistono da quattromila anni? Perché le loro radici affondano nel libro. Di solito le radici di un popolo, come quelle di una pianta, stanno nella terra. Se si strappa un popolo dalla sua terra, proprio come una pianta, muore. Ma le radici degli ebrei sono piantate nel libro: quando vengono strappati da una terra portano le radici con loro, e continuano a vivere. Se vuoi distruggere gli ebrei, devi distruggere i loro libri, come tante volte hanno cercato di fare nella storia. Lo ripeto, chi comincia bruciando i libri degli ebrei finisce col bruciare gli ebrei.
Lei ama l’islam, eppure ha un giudizio molto netto sulla politica di certi paesi islamici. Non si può dire lo stesso della maggior parte dei governi europei.
L’atteggiamento degli europei nei confronti della questione ebraica e palestinese è determinato dalla loro cattiva coscienza. Gli europei si sentono in colpa, doppiamente in colpa, per la shoah nei confronti degli ebrei e per il colonialismo nei confronti del mondo arabo. E la cattiva coscienza è una cattiva consigliera, banalizza, intorpidisce la ragione, impedisce di riflettere. Così si finisce per mettere sullo stesso piano gli israeliani e quelli che negano il diritto di Israele all’esistenza: un cattivo uso della ragione, prima ancora che una cattiva politica. Certo, io sono convinto che i palestinesi abbiano diritto a una loro terra e mi batto per il loro diritto, ma non si può dialogare con chi nega lo stesso diritto a te.
Da questo punto di vista l’America è più lungimirante dell’Europa.
L’America è libera dalla cattiva coscienza degli europei. Non sono stati gli americani a realizzare la shoah o il colonialismo. Poi c’è un’identificazione profonda tra l’America e Israele: i cristiani americani sentono molto il rapporto con l’Antico Testamento, il legame con l’eredità ebraica. Si sentono figli degli ebrei. Ci sono poi altre affinità: Israele è un paese di pionieri, come gli Stati Uniti, ed è una società multietnica, in cui tante tradizioni possono convivere, come la società americana. E poi c’è la questione decisiva del ruolo della religione nella vita pubblica, che differenzia la democrazia americana da quella francese.
Ci vuole spiegare meglio questa differenza tra Washington e Parigi?
Guardiamo le due dichiarazioni dei diritti, quella americana e quella francese. Sono del tutto simili, tranne in un punto: quella americana giura davanti a Dio, quella francese davanti agli uomini. Da qui discendono una serie di conseguenze. La Francia non ammette altra appartenenza al di fuori di quella alla nazione, non riconosce che uno possa essere francese e islamico. Non conosce integrazione, solo assimilazione. È molto diverso. Questa è l’origine dei problemi della Francia di oggi. Per secoli, le ondate di immigrati che sono arrivati in Francia dalla Catalogna, dal Portogallo, dalla Polonia, dall’Italia, sono state amalgamate dalla Chiesa, dalla religione cattolica. I francesi amano credere che il merito sia stato della scuola laica, ma non è vero: gli immigrati si sono ritrovati nella comune tradizione cattolica, e da lì sono stati introdotti anche ai valori civili dello Stato. Con gli islamici non è così, e infatti la scuola laica non basta. La questione del velo e dei simboli religiosi è un sintomo di questa incapacità. In America, invece, è diverso. L’America è una democrazia di comunità, non di individui. Gli uomini che andavano in America avevano un’identità collettiva, erano quaccheri, battisti, poi irlandesi, italiani, polacchi. Laggiù hanno trovato un paese che permetteva loro di coltivare la loro identità. Proprio per questo lo sentono come proprio, e tutti il 4 luglio sventolano la bandiera a stelle e strisce. La Francia, invece, pretende che per diventare francese uno dimentichi quel che è. Non è possibile. Una volta ho partecipato a un dibattito con Tariq Ramadan. Paradossalmente, io difendevo il comunitarismo, cioè l’idea che ciascun gruppo culturale abbia la sua identità. Lui il comunitarismo lo attaccava. All’inizio gli applausi del pubblico erano tutti per lui. Poi la gente ha capito che lui è contro il comunitarismo perché non vuole che gli islamici abbiano degli spazi propri, ma vuole che penetrino, che si infiltrino ovunque fino a conquistare l’intera società, e alla fine ha applaudito me. Capisce? La République e Ramadan su questo sono alleati, anche se una vorrebbe eliminare ogni religione, l’altro conquistare all’islam tutta la società. Ma non è una strada praticabile, la Francia dovrà cambiare.
E in questo processo di integrazione delle identità che ruolo vede per la Chiesa cattolica? E come giudica l’azione di papa Benedetto XVI?
Non conosco Benedetto XVI, mi fu solo presentato una volta da Giovanni Paolo II, che invece conoscevo bene (parlavamo in polacco). Wojtyla era passato sotto il nazismo e lo stalinismo, sapeva bene dove conduce l’intolleranza. Per questo, credo, ha coltivato il grande sogno di una “famiglia dei credenti” che potessero adorare lo Stesso in maniere diverse. Mi auguro che lo “spirito di Assisi” non sia stato solo una parentesi. Perché del resto, vede, ogni religione fa il suo lavoro. Se io fossi cattolico, penserei che la mia religione sia la sola vera. Ciascuno difende l’universalità della propria religione, è normale. E per questo è normale che dove una religione arriva al potere diventi intollerante, tenda a escludere. Perciò la miglior garanzia per la libertà di tutte le religioni è la laicità dello Stato. Uno Stato naturalmente che riconosce tutte le appartenenze che non vanno contro la sua legge, come quello americano. Non uno Stato che le appartenenze le nega, come quello francese.   

Exit mobile version