In marcia coi mujaheddin

La guerra prima di al Qaeda. Quella che si poteva raccontare e sentire sulla pelle. Un giornalista  nel presepe afghano dei guerriglieri di Allah

C’era una volta la guerra. E il tempo per raccontarla. Ricordo l’Afghanistan, la mia seconda volta da giornalista, un Natale, 23 anni fa. Si chiamava Mastichken. Trenta case nella provincia di Kabul, due giorni di cammino a sud della capitale, dieci dal Pakistan. Rovine, creta gialla rinsecchita, sventrata, abbandonata. Le bombe come salami di Jacovitti infilzate tra le pannocchie avvizzite, i muri sbrecciati, le travi abbrustolite, i melograni rinsecchiti. Conto i giorni in quel deserto con trenta mujaheddin infreddoliti, una capra e Abibullah, il capo. Ha la barba vermiglia, gli anni della saggezza. Mi chiama Wali. Sono uno da portare in battaglia e poi indietro. All’inferno e ritorno ed in un pezzo solo. L’ha detto Abdul Haq, l’ha ordinato il grande vero capo. Ha 28 anni e 13 ferite, un piede in meno. Dalla frontiera a Kabul è il comandante più famoso. I sovietici lo vogliono, vivo o morto. Lui attacca, fugge, ritorna. Lo rifarà anche nel settembre 2001 quando chiuse il negozio di tappeti in Germania e si offrì di nuovo agli americani. Non vide neppure l’inizio della guerra. Lo catturarono i talebani, appena oltre confine. Gli americani non lo salvarono. Il suo corpo tornò in Pakistan, gli amici stentarono a riconoscerlo. Dissero solo che non era più la sua guerra. Quella del Natale ’84 lo era, eccome. «Stai con Abibullah ci vediamo alla diga di Surubi il 27». Parola di Abdul Haq. E così eccomi a Mastichken.
Abibullah barba rossa mi guarda e sorride. Non spiccica una parola conosciuta, ma a me, per dovere o per forza, ci tiene. Quando l’elicottero ronza lontano e scende in picchiata lui corre tra le macerie, mi viene a pigliare: «Walì Walì Shuravi, shuravi, helicoptera». Mi avvolge nella coperta mi trascina nel fossato. Restiamo lì sotto le coperte tra il il legno carbonizzato mentre l’elicottero cerca e non vede. Natale è il fruscio della Bbc, un pugno di riso, la strage palestinese a Fiumicino raccontata dalla voce di Londra. È l’antivigilia del 27, di quell’anniversario dell’invasione sovietica quando Abdul, il grande capo, vuole attaccare. La sera cade alle tre del pomeriggio, poi il sonno in una rovina meno rovina delle altre, il fuoco acceso sotto il tetto, il fumo che soffoca. La capra se ne va una mattina. Abibullah mi cerca, il dito fa il segno del coltello. Il mio Swiss inox non convince. La capra urla come un bimbo, la roncola rugginosa le sega la gola. Ora è grasso sciolto nell’acqua, patina oleosa appiccicata alla gola . A Fiumicino i morti aumentano, a New York, racconta la Bbc, i negozi sono pieni. Onde corte, così corte da farti sentire infinitamente lontano. Poi quella notte, la mano sulla spalla «Walì Walì». D’improvviso siamo cento, duecento, mille. Brulicare di formiche sulla montagna, turbanti piegati da cannoni, mortai e munizioni. Sandali e piedi nudi nella oscurità. Quanto? La mano indica la vetta. «Appena oltre», mi traduco. Abibullah è un mantello in marcia, un fantasma ed un kalashnikov nel vento. La montagna è già fiamme. Mi sporgo. Sorubi, la centrale elettrica, le turbine, tutto sotto i miei occhi. Porta luce a Kabul, è un albero di Natale acceso nella notte. Son cinque anni  dall’invasione e Abibullah deve spegnerlo. La mitragliatrice russa mi fiammeggia in faccia, i colpi fischiano via. Abibullah è in piedi, un po’ si sporge, un po’ muove il cannone. Alla bene e meglio. I colpi mi sfondano le orecchie. La sua mano fa segno di star giù. Dura due ore. Sono ubriaco di cordite, sordo di cannonate. Abbiamo due feriti, c’è sangue attorno, ma la centrale è spenta, silenziosa. Abibullah sorride. Mastichken addio, la mattina dopo si torna. Siamo io, lui e trenta volti nuovi. I suoi venti restano lì, noi si scende in Pakistan con questa carovana di guerrieri da fine anno, transfughi dell’inverno, amici di un comandante amico.
La sera si passa il fiume Kabul, i cavalli impazziscono nell’acqua gelida, l’acqua cola tra le gambe, il vento agita il camicione, te lo gela addosso. Ma bisogna andare avanti. Abibullah guarda la strada, scuote la testa. Dieci ore di marcia ed il sentiero scompare. Tra noi e il Pakistan ora un budello di roccia, i cavalli che non passano. Li rimanda indietro. Siamo io lui, i trenta guerrieri sconosciuti e i bagagli tutti in spalla. Si arranca nella notte, la luna illumina bivacchi, scatolette russe e cenere troppo fresca. «Shuravi shuravi» l’allarme rimbalza nella colonna. Sono l’ultimo, lo zaino mi sega le spalle le macchine fotografiche mi piegano il collo. Sfiato, rallento, mi blocco. Dodici ore, più quelle della notte prima. La schiena dell’ultimo è sempre più lontana. Abibullah ferma la colonna. Lo scruto piccino e lontano parlottare, sussurrare in quel sentiero di freddo, insidie e agguati. Gli altri sanno cosa vogliono. Vogliono andarsene, marciare in fretta, abbandonare quel kafir, quell’infedele lento e pericoloso. Li guardo disegnati nel chiarore argentato della luna. Dita puntate su di me come su un sacco da buttare, una zavorra da abbandonare. Striscio vicino. Abibullah sorride nonostante tutto, fa segno con la mano, sussurra, parla, spiega. Uno si alza, tira un calcio al mio zaino, riprende a camminare, un secondo lo segue, un terzo ancora. Abibullah ha la barba rossa stretta nella mano, guarda Walì, guarda loro, guarda la situazione sfuggirgli via. Io e lui. Troppo pochi, troppo soli per il peso dei bagagli e per quella notte d’insidie. Tornare da Abdul Haq senza di me? Ancora peggio. Si tira la barba, si strizza il cervello. Poi l’occhio s’accende, le braccia si alzano. «Allah u akbar». Prima un sussurro lieve nella notte poi la preghiera in un canto roco: «Nel nome di Allah, il clemente, il misericordioso, la lode appartiene ad Allah, signore dei mondi, il compassionevole, il misericordioso, re del giorno del giudizio, Te noi adoriamo e a Te chiediamo aiuto, Guidaci sulla retta via. La via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella Tua ira, né gli sviati».
Gli sviati si fermano guardano quell’uomo in piedi nella notte, quel salmodiare indifferente ai rischi, alla paura. Posano i kalashnikov, ascoltano la preghiera, s’inginocchiano, piegano il capo, la ripetono. Abibullah mi fa segno con la mano. M’avvicino, m’inginocchio anch’io. La zavorra, la barba rossa, i fuggitivi sono un’unica fila, un salmo, una preghiera, un’unica infreddolità umanità in una sperduta notte di guerra, gelo e paura. Si va via senza una parola. Tutti insieme. Ed è finalmente, inspiegabilmente, infinitamente Natale.

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