Ma Arafat non aveva scelta

Perché i palestinesi hanno respinto il piano di pace di Clinton

Alla fine Arafat rischia di passare alla storia come l’uomo del gran rifiuto. Mai nella sua carriera di guerrigliero e di politico il vecchio leader palestinese era stato apparentemente tanto vicino all’obiettivo della sua vita: uno stato palestinese, Gerusalemme capitale, la spianata delle Moschee su cui poter pregare senza passare attraverso i cordoni di sicurezza dell’esercito e della polizia d’Israele. Ma, alla fine, il vecchio Arafat ha detto di no. Ha rifiutato l’accordo proposto da Bill Clinton e l’apparente disponibilità d’Israele. Ha lasciato scadere il tempo concesso. Ha preferito, alla fine, attendere l’inevitabile arrivo del falco Ariel Sharon. Follia senile, rigurgito di orgoglio, disperata illusione di poter piegare con la forza dell’Intifada il vecchio nemico? Una simile immagine di Arafat fa torto anche all’intelligenza d’Israele che, in fondo, l’ha sempre accettato come unica controparte negoziale. In verità quell’accordo, redatto in pochi giorni e definito “soluzione definitiva al conflitto”, faceva acqua da tutte le parti. Il suo peccato originale era la fretta. Uno dei nodi del contenzioso medio-orientale, da cinquanta anni a questa parte, è il cosiddetto diritto dei profughi palestinesi al ritorno sulle terre annesse da Israele. Un diritto basato legalmente sulle risoluzioni Onu, ma trasformato dalla storia in una proposta inaccettabile. Il contro-esodo di oltre tre milioni e mezzo di rifugiati sparsi in Giordania, Libano e Siria equivarrebbe a mutare l’essenza stessa dello stato ebraico trasformandolo in uno stato multiconfessionale e multirazziale. Neppure il più pacifista degli israeliani è oggi disposto ad accettare una simile prospettiva. D’altra parte neppure Arafat può dimenticare d’aver combattuto per quarant’anni in nome di quel progetto. Rinunciandovi, in cambio di una sovranità su Gerusalemme est e sulla spianata delle Moschee, Arafat sarebbe stato immediatamente accusato di tradimento delle fazioni fondamentaliste. Su questa posizione si sarebbero in breve allineate le ali più estremiste di Fatah, la gran parte della diaspora e gli alleati arabi più intransigenti come Siria, Iran e Iraq. Arafat insomma avrebbe guadagnato uno stato, ma avrebbe perso ogni autorità. L’unica via d’uscita era un’altra: procedere al riconoscimento dello stato palestinese sui territori del 1967 e alla sovranità formale sulla spianata delle Moschee, lasciando formalmente aperta la questione profughi. Nel lungo periodo sarebbe stato più semplice far accettare un ritorno limitato ad un ristrettissimo numero di ricongiungimenti familiari e placare il resto della diaspora con una serie di rimborsi finanziari garantiti dalla comunità internazionale. La fretta di raggiungere un accordo entro il 20 gennaio, ultimo giorno di permanenza di Clinton alla Casa Bianca, ha reso impraticabile questa strada.

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