Lo “spostamento storico” della Chiesa

Il pontefice ha imposto un nuovo corso alla Chiesa. Cosa è cambiato e qual è la nuova direzione

L’elezione di papa Francesco, un gesuita latino-americano di origine argentina, significa lo spostamento del punto di vista storico, cioè prospettico-temporale, della Chiesa cattolica dall’Europa al continente americano. Si è trattato di un evento drammatico perché assunto durante il papato di Benedetto XVI, anche se le circostanze umbratili che lo hanno consentito sono state rapidamente accettate.

Il trasferimento non è, naturalmente, di natura strettamente geografica ma ideale, nel senso che la Chiesa ha abbandonato bruscamente il corso dato da Giovanni Paolo II, rispecchiante il richiamo messianico alla cattolicità storica e millenaria da contrapporre alle spinte della degenerazione “totalitaria” del comunismo e del consumismo occidentale. L’ha abbandonata per imboccare un’altra dimensione messianica, legata ai grandi processi migratori che in quattro secoli hanno segnato la storia moderna del continente americano. Con una distinzione fondamentale però.

Come sappiamo, il colonialismo europeo dal secolo XVI divide l’America in due mondi contrapposti, quello di origine anglo-sassone e quello di origine ispano-iberica, l’uno essenzialmente protestante di fede calvinista, l’altro cattolico e papista; l’uno perciò democratico, l’altro oligarchico contrastato da larghi fenomeni di populismo. Ne consegue che l’intento di “riposizionare” la Chiesa dal suolo originario romano e quindi europeo a quello coloniale americano si configura in una duplice contrapposizione.

Da un lato opponendo allo spirito calvinista nord-americano quello cattolico e gesuitico che percorre la storia dell’America latina, lungo il travagliato rapporto tra conquistadores e indios e tra oligarchie creole e campesinos. La stessa esperienza biografica di questo papa, a lungo assistente spirituale entro le organizzazioni peroniste argentine, attesta fin dall’inizio un’irriducibile scelta di campo per il populismo latino-americano.

Dall’altro lato, si manifesta come un distanziarsi dalla tradizione della Chiesa romana e da ciò che resta (dopo il Concilio Vaticano II) della sua eredità millenaria, non solo rispetto alla sacralità del continuum con l’antichità storica romana, ma anche in quanto eredità di memorie profondamente radicate nel suolo spirituale dell’Europa.

Il processo di trasferimento del centro ideale della Chiesa dall’Europa all’America ha trovato un formidabile alleato nella cultura moderna, la quale come ben vedeva Augusto Del Noce nasce al tempo di Cartesio con un’opzione di rottura con la storia della metafisica, abbracciata invece dalla Chiesa cattolica ancora fino alla Seconda guerra mondiale. Quella moderna è una cultura che si alimenta su un rifiuto, trae forza unicamente da uno strappo. È significativo che il papato di Francesco incontri un benevolo appoggio da parte degli ambienti dello stanco laicismo che ha prodotto i maggiori effetti culturali negli ultimi cinquant’anni, determinando il clima intellettuale odierno.

Altre due osservazioni ancora mi sembrano definire in modo non convenzionale questo papato di rottura.

La prima riguarda il ruolo assunto dal papato nel corso dell’ultimo mezzo secolo, diciamo dal tempo di Giovanni Paolo II.

La forma monarchica e autoritaria definitivamente assunta dal papato a partire dalla Controriforma (sul modello assolutistico dei regni europei) si è ulteriormente evoluta attraverso la mediazione dei grandi strumenti di comunicazione del nostro tempo. L’impatto del pensiero del papa all’interno e all’esterno delle “comunità” ecclesiastiche e delle popolazioni del mondo si è fatto esclusivo e monopolistico, perché con l’infinita moltiplicazione mediatica la sua voce sostituisce ogni altra voce che provenga dalla Chiesa. Si tratta di un evento storico senza precedenti, ma non sorprendente perché noi siamo abituati a un fenomeno che coinvolge quanti sono destinati a passare nella visibilità dell’informazione di massa.

E a questo riguardo il papato di Francesco è sembrato fin dall’inizio assumere il volto del riformatore, irrompendo nei primi piani fotografici e televisivi persino con gesti e battute di effetto non diversamente, in fondo, da certi personaggi di successo. Si dirà colpa dei giornali non sua. Resta il fatto che mai come oggi la voce della Chiesa è (solo) la voce del papa.

Questo ruolo di sostituzione, tuttavia, non può non sminuire, come tutte le “dittature”, una verità profonda che è propria del cristianesimo storico: quella che la Chiesa non è mai stata un “pensiero unico”, ma un’articolata e complessa, anche contrastante poligonia di linee di pensiero. Non si tratta, si badi bene, di discutere il fatto dogmatico; ma di giudicare i problemi del mondo.

La seconda osservazione, consonante con la prima, concerne il carattere di mobilitazione di massa impresso da questo papato al mondo cattolico, dando un primato all’azione rispetto al ruolo tradizionalmente attribuito alla formazione. Questo sembra potersi giustificare alla luce delle “urgenze” epocali, tutte di ordine politico-sociale: discriminazioni, povertà, guerre, ambiente. È difficile quindi non avvertire la ripresa di un “orizzontalismo”, che non senza rischiosità e sbandamenti ideologici venne vivacemente avviato al tempo del Vaticano II, e poi riequilibrato dai tre grandi pontefici che si succedettero dopo: Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Per non limitarmi a fare considerazioni generiche cerco di confrontare quanto detto rifacendomi ai principali passaggi di due interventi che, a distanza di tempo, rappresentano il papato di Francesco: quello che, divenuto papa nel marzo del 2013, rivolse ai partecipanti del 3° incontro mondiale dei movimenti popolari il 5 novembre del 2016; e quello recente dell’incontro con i Vescovi del Mediterraneo tenuto a Bari il 23 febbraio scorso.

Il primo era rivolto ai delegati di più di 60 Paesi, venuti “dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque continenti”. Si tratta di un documento esemplare, perché vi erano già tutti i motivi di fondo di questo pontificato.

La prima affermazione del papa metteva in luce che

«il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli».

Si può riconoscere un giudizio di drastica condanna della globalizzazione, colta nel suo carattere essenziale. Da notare la sottolineatura dell’identità di un popolo, minacciata dalla cultura globale. Questo pensiero assume forza quando si tratta del continente latino-americano. Si pensi anche per esempio al documento finale del recente Sinodo sull’Amazzonia, con la sua forte accentuazione della pietà popolare e alle accuse mosse alla globalizzazione: 

«Nel momento attuale, la Chiesa ha l’opportunità storica di differenziarsi dalle nuove potenze colonizzatrici ascoltando i popoli amazzonici per poter esercitare in modo trasparente la sua attività profetica». (“Nuovi cammini per la Chiesa, I,15)

Segue il riconoscimento del valore dell’azione come antidoto della disperazione:

«Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza».

A questo punto papa Francesco rileva quale sia l’effetto antropologico prodotto dalle forze contrarie, cui si dovrà contrapporre la forza dell’azione popolare:

«Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è – l’ho detto di recente – c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso».

Il linguaggio del papa è chiaro, risentito e violento nel definire ‘terrorismo’ il dominio del denaro sulla terra. Si deve notare che il suo riferimento è preciso, anche se non esplicito. Si tratta di attribuire il crimine del terrorismo ai centri finanziari nord-americani e comunque “atlantici”, la cui colpa è aggravata dal fatto che da esso, secondo Francesco, derivano ‘terrorismi derivati’ come quelli indicati. E non esita persino a collegare rischiosamente la sua condanna a scenari rimossi dalle storiografie ufficiali:

«Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931!».

Ma a questo punto l’argomento di Francesco ha un nuovo passaggio. Egli mette in luce il fenomeno che consegue a questo, quello della paura. E, con la paura, la creazione di muri.

«Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro».

Qui torna il tema prediletto del papa, la creazione di ponti per ‘scavalcare’ la tentazione della paura attraverso la mobilitazione attiva, corale dei popoli. Il motivo è grandioso, utopico. Egli commenta un passo del Vangelo di Marco:

«in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati».

e ne fa la premessa di un disegno, altrettanto globale, di contrapposizione alla globalizzazione del denaro e alle sue false o fallaci illusioni ottimistiche: la globalizzazione dei “popoli” come ponte dell’umanità.

«Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto…».

Ma questa prospettiva messianica si apre a un ulteriore orizzonte, quello delle masse umane degli emigranti

«Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente».

Ma a questo punto l’argomentare del papa compie una svolta significativa. Che cosa significa gettare ponti se non fare politica?

«Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore” ».

L’appello all’interpretazione politica della carità si traduce però immediatamente in quello ben più radicale di una mobilitazione diremmo “classista” di contestazione per una democrazia di base, radicale.

«Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino».

Il forte accento classista dato al suo appello alla mobilitazione politica è forse il più chiaro riferimento al carattere latino-americano di una Chiesa che prende parte a una guerra mondiale tra il potere finanziario della globalizzazione economica del mondo e le comunità popolari. Tanto più che le ultime battute dell’intervento assumono il senso di un appello alla fedeltà e purezza morale del militante:

«Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latino-americano che si trova qui, colui che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario!».

E veniamo in Europa, anzi nel Mediterraneo, dove Francesco lancia un messaggio ai vescovi dalla basilica di San Nicola a Bari. Si direbbe che fin dalla prima battuta l’accento nei riguardi della globalizzazione sia diverso e persino benevolo:

«Ai nostri giorni, l’importanza di tale area non è diminuita in seguito alle dinamiche determinate dalla globalizzazione; al contrario, quest’ultima ha accentuato il ruolo del Mediterraneo, quale crocevia di interessi e vicende significative dal punto di vista sociale, politico, religioso ed economico».

In questo caso la globalizzazione rappresenterebbe addirittura una continuità storica, anziché una “ricetta sovraculturale che non rispetta l’identità dei popoli”. E l’appello alla mobilitazione non è svolto in termini di lotta ma di concordia e pace:

«In questo epicentro di profonde linee di rottura e di conflitti economici, religiosi, confessionali e politici, siamo chiamati a offrire la nostra testimonianza di unità e di pace».

Le guerre, dice il papa, che infiammano le sponde del Mediterraneo e il continente africano sono una follia, il fallimento di ogni progetto umano e divino. E la prima condizione per la costruzione della pace è la giustizia.

«Essa è calpestata dove sono ignorate le esigenze delle persone e dove gli interessi economici di parte prevalgono sui diritti dei singoli e della comunità. La giustizia è ostacolata, inoltre, dalla cultura dello scarto, che tratta le persone come fossero cose, e che genera e accresce le diseguaglianze, così che in modo stridente sulle sponde dello stesso mare vivono società dell’abbondanza e altre in cui molti lottano per la sopravvivenza».

Si fa strada nel discorso del papa un richiamo squisitamente politico, la condanna della disuguaglianza economica tra popoli avvantaggiati e popoli svantaggiati. Non è difficile tradurli in chi abita le opposte sponde del Mediterraneo, europei e afro-asiatici. Di qui l’appello alla solidarietà, che fa direttamente riferimento ai flussi migratori provenienti dal sud del mare. Ne segue un tono di dura condanna dei contesti sociali:

«in diversi contesti sociali è diffuso un senso di indifferenza e perfino di rifiuto. Si fa strada un senso di paura, che porta ad alzare le proprie difese davanti a quella che viene strumentalmente dipinta come un’invasione. La retorica dello scontro di civiltà serve solo a giustificare la violenza e ad alimentare l’odio».

L’appello alla mobilitazione dell’accoglienza non esita persino a ricorrere all’impatto retorico di scenari obiettivamente impropri, come a voler scacciare il “senso di paura” causato dalle masse di emigrati con un’opposta paura

«Certo, l’accoglienza e una dignitosa integrazione sono tappe di un processo non facile; tuttavia, è impensabile poterlo affrontare innalzando muri. A me fa paura quando ascolto qualche discorso di alcuni leader delle nuove forme di populismo, e mi fa sentire discorsi che seminavano paura e poi odio nel decennio ’30 del secolo scorso»

dove il “populismo” cambia di significato, rispetto a quello di origine latino-americana, e diventa negativo; e l’argomentazione del papa finisce col somigliare alle argomentazioni spesso usate dai media della “globalizzazione” nel fare frequentemente ricorso al mitico spettro del nazismo. Qui non si avverte più una minaccia alla preservazione dei caratteri etnico-popolari, ma anzi viene proposto l’arricchimento che dal flusso di immigrati afro-asiatici deriverebbe alle popolazioni; e “globalizzare” unificherebbe la famiglia umana:

«Questo processo di accoglienza e dignitosa integrazione è impensabile, ho detto, poterlo affrontare innalzando muri. In tale modo, piuttosto, ci si preclude l’accesso alla ricchezza di cui l’altro è portatore e che costituisce sempre un’occasione di crescita. Quando si rinnega il desiderio di comunione, inscritto nel cuore dell’uomo e nella storia dei popoli, si contrasta il processo di unificazione della famiglia umana, che già si fa strada tra mille avversità».

E una frase rivelativa:

«Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare in tal senso: è il mare del meticciato, «culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione». [3] Le purezze delle razze non hanno futuro. Il messaggio del meticciato ci dice tanto».

Mai come in questo passaggio si manifesta il punto di vista antropologico del papa, che parimenti diventa quello di una visione “americana” della Chiesa. Il modello è tipicamente latino-americano: quello di una terra di immigrazioni europee in un suolo abitato da popolazioni indigene, con larghe mescolanze razziali e culturali. Modello esattamente opposto a quello nord-americano, dove la distanza razziale e le conseguenti forme di schiavismo e di apartheid avevano trovato ampia giustificazione nel protestantesimo calvinista.

Di qui il modo di guardare l’Europa di questo papa, animato dal pregiudizio “pedagogico” di un americano che “diffida” dell’Europa e ne legge la storia come una storia di errori e in fondo di colpe. Il modo in cui questo papa sembra guardare alle immigrazioni attraverso il Mediterraneo, e che alla superficie coincide con quello degli organi mediatici della globalizzazione, è quello delle colonizzazioni europee in America e degli effetti storico-antropologici che ne seguirono.

La teologia, come dice Francesco, “dell’accoglienza e del dialogo” sembra muovere proprio dal riconoscimento di queste colpe storiche:

«Troppo spesso la storia ha conosciuto contrapposizioni e lotte, fondate sulla distorta persuasione che, contrastando chi non condivide il nostro credo, stiamo difendendo Dio. In realtà, estremismi e fondamentalismi negano la dignità dell’uomo e la sua libertà religiosa, causando un declino morale e incentivando una concezione antagonistica dei rapporti umani».

Dove non deve sfuggire il fatto che qui il soggetto dell’ingiustizia non è più, pertanto, la globalizzazione, bensì al contrario “la storia” europea, che come sappiamo è storia di nazioni. Nelle parole del papa si evidenzia una chiave di lettura che contrappone una sorta di “innocenza” originaria dei popoli del “terzo mondo” (come si diceva un tempo) alla civiltà europea e al peccato del colonialismo e non solo di quello, ma anche della millenaria storia di tutta l’Europa e della stessa Chiesa europea. Per farmi meglio capire, proviamo per contrasto a pensare alla concezione agostiniana della storia, dove la storia e la storia della Chiesa si sovrappongono in un disegno misterioso in cui la “giustizia” sarà alla fine dei tempi.

Ne segue allora una distinzione problematica. Citando il suo contestato documento interreligioso sulla fratellanza, promosso ad Abu Dhabi, il papa dice:

Quanti insieme si sporcano le mani per costruire la pace e praticare l’accoglienza, non potranno più combattersi per motivi di fede, ma percorreranno le vie del confronto rispettoso, della solidarietà reciproca, della ricerca dell’unità.

Il che significa che vi è la prospettiva di una “globalizzazione” religiosa in nome di una mobilitazione delle fedi. Ma questo (è mia osservazione) è auspicato entro un quadro di forte ambiguità, dal momento che si riferisce alla famosa frase in cui papa sentenziava che

«Il pluralismo e la diversità delle religioni, il colore, il sesso, la razza e il linguaggio sono voluti da Dio nella sua saggezza»

 Foto Ansa

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