L’Italia deve restare nell’Unione europea proprio perché maltrattata

«Se sbraitiamo o ce ne andiamo dall'Europa perdiamo la partita. Al contrario, dobbiamo impegnarci e tornare a far politica». Così il parlamentare europeo Mario Mauro spiega perché l'Italia non deve abbandonare l'Unione europea pur riconoscendne gli errori

«Se reagiamo con la logica del “battere i pugni” vincerà sempre il più forte. Ma così facciamo il gioco dell’Europa perché l’Italia non è tra i più forti. Se ci ritiriamo avremmo perso in partenza la partita più grande». Il parlamentare europeo Mario Mauro, capogruppo della delegazione italiana del Partito popolare, spiega perché l’emergenza profughi e l’isolamento denunciati dal’Italia sono motivi validi per restare in Europa piuttosto che andarsene.

Il ministro degli Interni Roberto Maroni ha affermato che l’isolamento dell’Italia in Europa sull’accoglienza degli immigrati africani è solo la punta dell’iceberg, perché in realtà il nostro paese è sempre stato emarginato. Perché dovremmo rimanere in Europa?
Penso che dobbiamo aiutarci a capire a che cosa serva l’Europa. E’ nata come istituzione per la pace e lo sviluppo e da settant’anni funziona così. Ultimamente il metodo utilizzato perché questo si realizzasse è andato in crisi: sulla logica comunitaria ha prevalso quella nazionalista. Il passaggio è avvenuto quando l’Inghilterra entrò nell’Unione negoziando e facendosi fare degli sconti importanti, per cui di fatto si accettò che la mentalità egoista dell’interesse particolare dovesse prevalere. Da lì la partecipazione al tavolo europeo è diventato il “battere i pugni” del tutti contro tutti per far prevalere il proprio tornaconto. L’Italia non deve reagire con la stessa mentalità, perché facendolo va contro i suoi interessi: se prevale questa logica significa che vinceranno sempre gli Stati più forti e un sano realismo ci fa capire che l’Italia non è fra questi.

Quale alternativa concreta esiste se questa è la piega presa dalle istituzioni europee?
Ricordo quello che accadde con l’implosione del muro di Berlino, arrivarono tantissimi profughi dai paesi dell’Est. Tutti avevano paura, soprattutto chi pensava che i nuovi arrivati avrebbero sottratto il lavoro ai cittadini europei. L’Unione, in quel caso, capì che il problema era politico e che quindi occorreva una risposta politica: si disegnò un road map che ha integrato 150 milioni di cittadini, senza sconti ai paesi d’origine e quindi senza perdite per quelli ospitanti. Questo è il frutto di azioni politiche condivise e di ampio respiro.

Quindi non è d’accordo con chi dice che sarebbe meglio uscire dall’Europa?
Capisco bene la rabbia dell’Italia che è stata lasciata sola, ma credo sia utopico pensare di vivere senza l’ Europa. Perciò, il compito che abbiamo è quello di ritornare all’azione condivisa. Nel caso specifico significa che l’Italia deve giocare la partita sul piano delle norme, senza sbraitare: deve sostenere senza stancarsi che il trattato di Lisbona dice che gli immigrati sono un problema europeo. Ci hanno risposto che gli extracomunitari non sono rifugiati politici e che quindi è lo Stato singolo a dover rispondere da solo, giocando sul fatto che la Germania l’anno scorso ha assorbito 120 mila stranieri? Bisogna allora scuotere le coscienze dei tavoli europei, spiegando perché il problema del Nord Africa è più profondo e che se non si risponde subito, poi sarà peggio per tutti. L’Ue deve capire che quelli che stanno arrivando non sono clandestini che fuggono per la povertà, ma che scappano per via di una destabilizzazione politica importante a cui tutta l’Europa deve guardare, pensando a politiche di lungo termine.

La Commissione europea sta anche spingendo per il riconoscimento forzato in tutta Europa della libera circolazione dei documenti pubblici e del reciproco riconoscimento. Significa accettare di obbedire alle leggi di altri in casa nostra, comprese quelle sulla famiglia, sulle adozioni etc. Non è un’altra violazione inaccettabile?
Uno degli scopi europei è il mercato unico, le persone iniziando a circolare liberamente hanno portato con sé gli status dei paesi di provenienza. Molti chiedono che gli stessi diritti di cui godevano nei loro Stati di provenienza siano riconosciuti in altri. E’ il problema dell’armonizzazione del diritto che non è semplice, proprio perché non c’è una visione ancora unitaria dell’Europa. Credo che non sarà possibile se non si ritrovano le comuni radici che ci uniscono e che, volenti o nolenti, sono quelle cristiane: non si può negare che lo sviluppo, la possibilità di un’assistenza sanitaria in tutto il continente e di una ricchezza reale sono frutti del cristianesimo europeo. E’ vero che molti Stati ora hanno governi di stampo laicista, con legislazioni civili che riconoscono le unioni omosessuali o vietano di indossare il velo, ma questa non è una scusa per mollare l’Europa: su ogni valore, che poi si incarna in fatti concreti, occorre continuare a battersi. Se ci ritirassimo per paura avremmo perso in partenza la partita più grande.

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