L’inguaribile voglia di vivere

Storia di Mario Melazzini, oncologo affetto da Sla che si ostina a non desiderare la morte. Né per sé né per quelli che la invocano come "diritto"

Come ogni persona prudente e laboriosa Mario Melazzini legge pochissimo i giornali. Sarà forse per questo che si ostina a vivere pur essendo affetto da Sla, la malattia che rende indegna la vita di essere vissuta. Di vedere i telegiornali serali non ne ha né l’agio né il tempo: «Alle diciannove sono sfatto e m’addormento». Melazzini va a letto per nutrirsi e respirare. Si corica, infila il tubo in pancia, si fa due fiale di medicinali, attacca il respiratore alla bocca, s’assopisce, mangia dormendo, respira sognando. «Ottimizzazione dei tempi» la definisce. Di giorno è troppo occupato a brigare per vivere da quando ha scoperto che «l’adrenalina è la miglior medicina». L’altra si chiama Riluzolo, un farmaco di cui Melazzini, da buon malato di Sindrome laterale amiotrofica, fa uso e che, dicono le statistiche, potrà allungargli la vita di tre o quattro mesi.
Melazzini, 47 anni, è da tre anni e mezzo consapevole di essere affetto da un male sconosciuto e incurabile. Lui, che di mestiere fa il medico primario al day-hospital oncologico Maugeri di Pavia, la mattina la trascorre in corsia a curare gli altri, il pomeriggio a occuparsi come presidente dell’Aisla dei diritti dei sofferenti di Sla, la notte a esaudire il detto “medice, cura te ipsum”. «Il momento in cui finalmente posso esercitare il mestiere di malato» scherza. Le giornate di Melazzini, umanamente uno e professionalmente trino, hanno tutte la medesima scansione. Sveglia alle 6 e 45. Arrivo della badante in camera che gli stacca la sonda che lo alimenta e gli somministra i medicinali via peg (gastronomia endoscopica percutanea), «vede qui sulla mia pancia c’è un bottoncino dove inserire il tubo». Quindi tazza di caffè, o qualcosa di simile: «è una mousse che ne ricorda il sapore. Io sono sempre stato un caffeinomane». Quindi denti barba doccia fino all’arrivo dell’autista che carica lui e la carrozzella sull’auto per portarlo in ospedale. Segue il lavoro ordinario di ogni dottore che ha a che fare con i tumori. Alle 14 un’altra automobile lo porta a Novara dove è la sede dell’Aisla. Alla sera a casa alle 19 «e mentre viaggio mi attacco al ventilatore per recuperare un po’ di fiato». Aria che gli servirà per fare due chiacchiere con la moglie e i tre figli prima di riattaccare la sonda al ventre. Insomma, la solita routine, il solito tran tran, il solito sublime logorìo della vita moderna. «Assolutamente – ride -, se non fosse che tutte le pappe hanno un retrogusto di vaniglia. Io odio la vaniglia». A Stefano Lorenzetto che lo ha intervistato per Panorama ha esternato un’immagine che rende bene il disagio: «La mattina solo ruttini vanigliati. Dopo un po’ non se ne può più».

Un medico in carriera
C’è stato un tempo in cui Melazzini non ne poteva più della vita: «è stato quando mi è stata diagnosticata la Sla». Professionista in carriera, era diventato primario a soli 39 anni. Sportivo, fisico bestiale, «mai avuta un’influenza». Poi il verdetto e la disperazione. «Mi rivolsi a Dignitas, l’associazione svizzera che aiuta il trapasso. La dolce morte? Uno squallore». Doveva semplicemente documentare che «ero incurabile, che mi assumevo tutte le responsabilità, che ero in grado di somministrarmi da solo il mortifero farmaco». Sebbene avesse tutti i requisiti richiesti e due dita ancora abili per compiere il gesto terminale, rimase sbalordito dalla «totale freddezza con cui mi veniva presentato il suicidio. Quasi che avessi chiesto un lifting». Poi trascorse quattro mesi, da solo, lontano dalla famiglia, in una casa in montagna leggendo il libro di Giobbe «che mi riattivò i neuroni». Gli parve che la storia dell’uomo che, coperto di piaghe e reietto, aspetta la morte presso la discarica della città fosse la sua. E che quando non rimane altro se non Dio, soltanto allora ci si rende conto che solo Dio ci basta. Sa che è un po’ assurdo che uno come lui, che soffocherebbe bevendo un bicchiere d’acqua, possa affermare una cosa del genere, ma ci tiene a dire che «solo oggi mi sento una persona sana». Inguaribile non è sinonimo di incurabile. «Quel che voglio dire è che la Sla, sebbene sia una malattia anarchica e poco conosciuta, non è intrattabile. Esistono molti strumenti che aiutano la prognosi in termini temporali e di qualità della vita. Il ventilatore aiuta a recuperare il respiro, le sonde a nutrirsi. Il vero problema è che noi medici – adesso parlo da dottore – non sappiamo dire a noi malati – adesso parlo da paziente – come reagire di fronte a questo male». Godendo della doppia non invidiabile posizione, Melazzini afferma di voler fare della propria vita un esempio discreto ma certo di come «si possa vivere anche con la Sla». «Sono convinto che se il medico è capace di coinvolgere il paziente in scelte condivise e non imposte, se è in grado di spiegargli quali siano i passi da compiere, se il paziente sa accettare la propria diversa condizione, non ci sarà mai bisogno del testamento biologico. Non ce ne sarà bisogno perché dal modo con cui uno si occupa di te, tu saprai di esistere». E non sarai costretto oggi, da vivo, a scrivere un testamento su come sarai domani, da mezzomorto.

Effetto placebo da 25 mila euro
In Italia ci sono circa cinquemila malati di Sla. L’Aisla, l’associazione guidata da Melazzini, ne raccoglie 4.500. Come recita un comunicato dell’ente: «Nell’ultimo semestre la nostra associazione ha preso contatto con tutti gli assessorati alla Sanità delle Regioni italiane per evidenziare le problematiche legate alla gestione del paziente, sia a livello ospedaliero sia domiciliare, e migliorare l’erogazione dei servizi a supporto dei malati e dei loro familiari». «Il problema – sospira Melazzini – è che il mondo della Sla è un universo trascurato e abbandonato a se stesso. Questa è una malattia per ricchi perché le cure sono dispendiose e anche le case farmaceutiche, visti i pochi casi e gli alti costi, investono poco sui possibili rimedi. Oggi l’assistenza è lasciata al buon cuore di singole persone e meritevoli strutture».
All’Aisla è attivo un centro d’ascolto. Il telefono squilla spesso e si trascorrono le giornate a spiegare e confortare. Anche a mettere in guardia, «soprattutto dai cialtroni che promettono cure improbabili. Come quelle con le staminali embrionali, quelle che vanno tanto di moda in Cina». Melazzini racconta che «ci sono malati di Sla che si affidano a questi ciarlatani. Spendono cifre ed energie esorbitanti, trascorrono un mese in Cina e tutto quello che ottengono è un effimero sollievo, tutto psicologico ma per nulla reale». Di vero c’è solo la spesa, 25 mila euro per un effetto placebo. «Ho provato a contattare uno di questi dottori cinesi presentandomi come medico: non mi ha mai risposto. Gli ho scritto come malato: mi ha subito inviato i depliant del viaggio».
I problemi però non stanno solo in Cina. «Siamo impegnati soprattutto nel far conoscere la malattia agli italiani. è scandaloso che ancora oggi non esistano norme che ci tutelino: spesso a chi è malato di Sla non viene riconosciuta l’invalidità o non gli sono rimborsate le spese per i farmaci». Sembra che agli affetti da Sla si voglia riconoscere solo il diritto di farla finita. Il 18 settembre l’Aisla ha organizzato un sit-in a Roma davanti al ministero della Salute per protestare contro questa discriminazione. Poi Melazzini è stato ricevuto da un collaboratore del ministro Livia Turco che ha promesso, «in tempi brevi», il riconoscimento immediato dell’invalidità, la rimborsabilità dei farmaci del piano terapeutico e l’istituzione di un tavolo tecnico. Promesse ribadite dal ministro solo qualche settimana dopo. Siamo a dicembre e ben poco s’è mosso. «Aspetto in buona fede, ma se non accade nulla prima di Natale, mi sa che diventerò meno educato».

I malati di Sla hanno paura
A Roma ha portato, tra famigliari e malati, duecento persone. «E c’era gente in carrozzella ma anche ventilata artificialmente e tracheotomizzata». Sui giornali la notizia è comparsa in una breve sulle pagine interne, ma si è molto discusso del caso di Piergiorgio Welby, il copresidente dell’associazione Luca Coscioni affetto da distrofia muscolare che ha chiesto al presidente Giorgio Napolitano di poter morire. La carica di Welby avrebbe potuto essere sua; in altra occasione ha raccontato che, alla morte di Luca Coscioni, la moglie Maria Antonietta gli telefonò per proporgli la presidenza dell’associazione, ma lui rifiutò perché «la libertà di ricerca scientifica non è tutto. La libertà di ricerca è il grimaldello per far passare la sperimentazione sugli embrioni, la fecondazione eterologa, l’eutanasia, l’aborto. Tutto».
Chi pensi a Melazzini come a un antiWelby rimarrebbe deluso, il dottore parla del caso con assoluta comprensione, ma non per questo con ipocrisia. Le sue parole sul caso sono limpidamente precise: «Non ne sopporto la strumentalizzazione a fini politici. Non voglio apparire meschino, ma non posso non chiedermi se è stato fatto tutto il necessario per non portarlo alla disperazione. Sbaglia chi l’ha descritta come una situazione di accanimento terapeutico, anzi, ho quasi l’impressione che su quell’uomo il dolore sia stato più provocato che evitato, mostrato al solo fine di spaventare l’opinione pubblica». Parole decise di chi ha letto sui quotidiani che Welby, negli ultimi anni, è uscito di casa solo per andare a votare al referendum sulla legge 40: «Perché non lo hanno portato a vedere un po’ l’azzurro del cielo anziché fargli vedere sempre il bianco del soffitto?». Ma soprattutto parole che nascondono più di un semplice presentimento. «Ogni giorno incontro decine e decine di malati di Sla. Mi piace girare, entrare in casa loro, conoscerli. Vogliono vivere, ma devo dire che sono tutti terrorizzati e, mi scusi la parola, tremendamente incazzati». Paura e arrabbiatura «perché è solo questione di tempo. Altro che libera scelta e altro che diritti: se la nostra è una vita indegna, non tarderà l’ora in cui noi saremo degni solo di morire».

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