L’inganno dell’ ‘invecchiare bene’

Un recente numero del British Medical Journal titola “Cosa vuol dire invecchiare bene?” ed elenca salute fisica, memoria e attività sociale come parametri per capire se i nostri anziani «stanno invecchiando con successo». Tutto questo nell’assunto che la disabilità o la malattia mentale siano segno di fallimento. Già: per l’etica moderna, conta solo chi può dare e chi non dà fastidio; l’ideale è arginare e non darsi noia: censurare il dolore ed eliminare chi soffre. D’altronde il motto «la libertà è quella che finisce dove inizia la libertà altrui» sembra proprio creato da coloro che pensano che nella ricerca della felicità siamo ognuno un ostacolo per l’altro, e fanno leggi secondo cui un figlio malato non è altro che una patologia per la madre. Ma c’è chi intravede la certezza che ognuno, con i suoi limiti, per l’altro è invece una risorsa: il Consiglio di Bioetica del presidente Usa ha da poco pubblicato un libro sull’etica della terza età stroncando le famose «direttive anticipate di fine vita»: «Questo approccio dà grande peso all’orgoglio, all’autonomia e all’autosufficienza. Ma così deliberatamente ignora la realtà dell’interdipendenza umana». Già: bisogna scegliere se per noi la salute è «il pieno benessere psicofisico e sociale» (a tutti i costi e a costo di tutti), senza il quale non accettiamo di vivere, oppure «la capacità di cercare la felicità», in cui l’autonomia non assurge a divinità e la malattia non è l’ultima parola.

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