L’impresa in bomba

Costi? Ma quanto ci costi? Italia vs Serbia: dal giro di affari di quasi un miliardo di dollari l’anno, alle bombe “intelligenti” (anche italiane) che schiantano le fabbriche Fiat in Yugoslavia. Conseguenze dell’azzeramento dell’interscambio commerciale tra Roma e Belgrado all’epoca in cui Wall street macina record al rialzo, in Italia cala la produzione industriale, l’economia stagna e, ammette anche D’Alema, “il conflitto compromette la ripresa”

Quanto può costare una guerra? Agli italiani, forse, molto. E non solo perché il ministro delle Finanze Vincenzo Visco ha già lasciato intendere che qualora la guerra continuasse a lungo si renderebbe necessaria un’apposita tassa per sostenerne le spese; ma anche perché, come ammesso da un preoccupatissimo Massimo D’Alema, gli effetti sulla nostra economia non si farebbero attendere a lungo.

Gli ultimi dati sulla nostra produzione industriale, già non inducono alcun ottimismo visto che registrano un calo del 3% a febbraio, del 3,4% nel primo bimestre del ’99 rispetto all’anno precedente e già gli ultimi mesi del 1998 avevano fatto segnare un -3% a dicembre e un -3,9% a ottobre. Tutto ciò, naturalmente, ha origini ben lontane dal Kosovo, ma quali riflessi avrebbe su un’economia già in difficoltà un lungo conflitto che, per fare solo un esempio, compromettesse la stagione turistica (con tutto il suo indotto) della costa adriatica? L’Italia è troppo vicina alla Serbia ed è inevitabile il rischio di qualche “scheggia”. È una vicinanza diplomatica (negli ultimi anni, l’ex ministro degli Esteri yugoslavo Milutinovic è venuto in visita in Italia nell’agosto del 1996 e nel giugno del 1997, mentre il suo successore Jovanovic è venuto a Roma nel febbraio 1998) e soprattutto una vicinanza economica dal momento che l’Italia è tra i principali partner della Repubblica federale yugoslava. Basti pensare che l’unica privatizzazione attuata da Milosevic, la vendita della compagnia dei telefoni e delle telecomunicazioni nazionali la quale non era neanche più in grado di pagare gli stipendi ai suoi dipendenti, ha visto l’intervento della Telecom Italia che ha acquistato in blocco l’equivalente azienda yugoslava. Costo dell’operazione, 1,4 miliardi di dollari: una bella cifra per le esangui casse di Belgrado se si considera che l’intero Prodotto interno lordo annuo yugoslavo è di 19 miliardi di dollari. Ma oltre a Telecom, sono molte le aziende italiane impegnate in Serbia, alcune di primissimo piano: Fiat, Alitalia, Breda Ferroviaria, Enel, Italgas, Ericsson d.o.o, Olivetti Energodata, Scala detersivi, Zucchelli-Balan…

E poi aziende impegnate in produzione di tessuti in cotone (per un fatturato, secondo i dati forniti dal ministero degli Esteri, di 40,3 milioni di dollari), accessori per abbigliamento (8,5 milioni di dollari), scarpe di cuoio (11,7 milioni di dollari) e altre parti per calzature (10,2 milioni di dollari), plastica (10,4 milioni di dollari), apparecchiature per telefonia e telegrafia (8,1 milioni di dollari), antibiotici e derivati (7 milioni di dollari), autoveicoli (6,3 milioni di dollari) e lubrificanti (4,8 milioni di dollari). A queste vanno aggiunte le imprese, solo in Lombardia sono decine, che commerciano con la repubblica yugoslava.

Complessivamente, da quanto comunicato dall’Ufficio federale di Statistica jugoslavo, nel 1998 l’interscambio tra Italia e Serbia ha raggiunto gli 818,6 milioni di dollari (+1,9% rispetto all’anno precedente), con un aumento del 4,5% delle esportazioni italiane (507,8 milioni di dollari) e una diminuzione del 2,1% delle importazioni dalla Serbia (310,8 milioni di dollari) per un saldo attivo per l’Italia di 197 milioni di dollari. Secondo i dati della Farnesina, alla fine del 1996 l’interscambio commerciale registrava un saldo positivo per l’Italia di oltre 267 miliardi di lire, nel ’97 di 102 miliardi di lire, mentre a settembre ’98 (dati Istat) l’interscambio segnava un saldo positivo per l’Italia di oltre 149 miliardi di lire. In definitiva, quindi, un mercato significativo per le aziende italiane e interessi che rischiano di crollare sotto i bombardamenti. Impossibile, ovviamente, fare calcoli e previsioni anche considerando i contratti assicurativi che le aziende stipulano quando investono all’estero e, in particolare, in zone a rischio. aLa Sace, l’istituto pubblico di assicurazione al credito di esportazione che opera sotto l’egida del tesoro, è il principale ente di assicurazione degli investimenti all’estero. Secondo i dati ufficiali, al 31 dicembre del 1998 l’istituto sarebbe stato esposto con la Repubblica Federale Yugoslava per circa 343 miliardi di lire: “In realtà – spiega Donato Quarta, direttore centrale della Sace – quella cifra si riferisce a risarcimenti relativi a contratti stipulati negli anni 80. Negli ultimi anni invece non abbiamo stipulato nuovi contratti perché non è stato ancora possibile calcolare quale sia la quota del vecchio debito pubblico yugoslavo competa all’attuale federazione e quindi, possiamo tranquillamente dire di non rischiare nulla da questa guerra”. Sarà, ma solo per fare un esempio significativo, la Fiat è legata alla Zastava Kamion per la produzione e vendita di mezzi dell’Iveco e ne ha quindi condiviso le sorti quando la fabbrica automobilistica, tra i primi obiettivi, è finita nel mirino dei caccia Nato ed è stata distrutta. Chi pagherà i danni? “Ci sono banche e società di forfaiting che coprono quelle attività – continua Quarta -. Normalmente si tratta di contratti onerosi, ma, d’altra parte, in quelle condizioni di mercato sono possibili ricarichi tali da coprire anche i costi di simili assicurazioni”. Se c’è chi perde, resta da vedere se in guerra c’è anche chi vince.

Ovviamente, in questi casi le aziende di armi e produzioni belliche sono sempre le prime indiziate di lucrare sui disastri del pianeta. Le principali produttrici italiane del settore sono a Brescia, ma si occupano principalmente, come nel caso della Beretta o della Fiocchi, di armi da caccia o forniture per le forze di polizia. “E purtroppo sono quasi tutte in crisi – contrattacca Aldo Menini segretario della Cisl e per molti anni segretario dei metalmeccanici bresciani – Le campagne contro la caccia ha lasciato tracce dure sulla produzione. Le uniche aziende che producevano armamenti da guerra erano la Valsella, tristemente famosa per la produzione di mine antiuomo, che ora ha completamente riconvertito la produzione e la Breda, che produce armi di media-piccola grandezza per la contraerea.

Anche la Breda, però, negli ultimi anni ha ridotto gli occupati passando da 800-900 dipendenti a circa 350. Qui la guerra, almeno ufficialmente, non sortisce effetto alcuno”. Informazioni dirette, soprattutto in questo periodo, è difficile ottenerle e intorno a queste aziende c’è un certo riserbo. “Io me ne sono occupato come sindacalista – continua Menini – e mi sembra sbagliato criminalizzarle. So che era stato studiato un piano per ricollocare e valorizzare la loro attività, magari in funzione di operazioni di tipo umanitario che richiedano comunque l’uso di armamenti, ma non se ne è fatto niente e la crisi avanza”. Evidentemente, anche da un punto di vista economico la guerra fa solo sconfitti.

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