Libia, fallisce l’operazione anglosassone di aiuto ai ribelli

Sette uomini dei corpi speciali (Sas) e un ufficiale dei servizi segreti militari del Regno Unito sono stati arrestati a una ventina di miglia da Bengasi dagli stessi ribelli che volevano aiutare. Il fallimento britannico rimanda alla difficile interpretazione della situazione libica, che sembra destinata ad avvantaggiare gli estremisti islamici

Se la sofisticata operazione anglosassone di supporto ai ribelli anti-Gheddafi in Cirenaica è quella raccontata dai media, stiamo freschi. Nelle prime ore di venerdì notte della settimana scorsa sette uomini appartenenti ai corpi speciali (Sas) e un ufficiale del Mi6 (servizi segreti militari) sono stati arrestati a una ventina di miglia da Bengasi dagli stessi ribelli che volevano aiutare. Le comunicazioni fra l’ambasciatore britannico a Tripoli e il Consiglio nazionale di Bengasi per ottenere il rilascio degli otto militari sono state intercettate dalle autorità libiche, che le hanno trasmesse alla tivù di Stato.

Alla fine il gruppo è stato rilasciato e rispedito a casa a bordo di una nave militare britannica, ma i ribelli di Bengasi hanno comunicato al mondo la loro indignazione per l’accaduto: «La ragione per cui gli inglesi sono stati arrestati», ha dichiarato un portavoce, «è che sono entrati nel paese illegalmente e senza previ accordi con le nostre autorità. La Libia è uno stato indipendente, abbiamo i nostri confini e ci aspettiamo che vengano rispettati da tutti».

Effettivamente pare che il team militare, che agiva mentre a Bengasi un team diplomatico era a colloquio con le nuove autorità, sia stato catapultato in Libia solo sulla base di accordi con personaggi di secondo piano; l’elicottero che li ha trasportati ha rischiato di essere abbattuto perché i libici hanno creduto di trovarsi davanti ad un attacco di forze fedeli a Gheddafi, poi gli otto hanno aggravato la loro posizione quando hanno affermato di non avere con sé armi, che invece sono state subito scoperte e sequestrate.

Non c’è dubbio che la vicenda sarà d’ora in poi oggetto di un ping pong propagandistico fra Gheddafi e i suoi oppositori, col primo che denuncia il complotto colonialista contro la jamahiriya e i secondi che lo negano sulla base della loro reazione all’improvvida iniziativa britannica. In una conferenza stampa il Consiglio nazionale di Bengasi ha ribadito che nessuna presenza militare straniera sul suolo libico, anche se a fianco degli insorti, è considerata accettabile.

Gli stessi giornali britannici che hanno raccontato l’accaduto evidenziano, attraverso i loro inviati, che la situazione sul terreno sta facendosi sempre più ambigua per l’acclarata presenza di jihadisti ed estremisti islamici vari fra le file dei combattenti. Scrive il Daily Telegraph che «fra i combattenti che aspettavano di dare l’assalto alla città di Ras Lanuf sabato scorso c’era un piccolo gruppo di uomini che si preparava alla battaglia ascoltando sermoni fondamentalisti di denuncia dell’Occidente da una cassetta registrata. Molti in prima linea definiscono apertamente la ribellione come jihad, che può essere semplicemente un modo per sottolineare il dovere religioso di rovesciare Gheddafi. Ma le barbe lunghe e l’abbigliamento di alcuni combattenti, che dimostravano aperta ostilità nei confronti dei giornalisti occidentali, suggerisce che si trattasse di salafiti. Parti della Libia orientale, in particolare la città di Derna, sono note per la loro popolazione salafita e la presenza di ex combattenti dell’Afghanistan».

Il puntuale fallimento britannico rimanda alla natura di rompicapo per l’Occidente dell’attuale situazione libica, che sembra destinata ad avvantaggiare jihadisti ed estremisti islamici in ogni caso: se la Nato o gli anglosassoni non intervengono militarmente e il regime di Gheddafi riprende il controllo, gli islamisti potranno rinverdire l’argomento propagandistico secondo cui gli occidentali sono indifferenti alle sofferenze dei musulmani e stanno dalla parte dei loro aguzzini; se invece intervengono, questo getta le basi per il consolidamento di forze jihadiste dedite alla guerra santa contro il nuovo colonialismo degli infedeli in terra islamica. In entrambi i casi Al Qaeda ci guadagna. Ma la peggiore delle due ipotesi è certamente la seconda, come dimostrano le vicende dell’Iraq e, per alcuni aspetti, dell’Afghanistan.

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